Peredelkino

Ritrovo questo pezzo, che credo di aver scritto una quindicina di anni fa. Eravamo andati a Peredelkino a trovare Pasternak, che da molti anni non vi abitava più.

A Peredelkino ci siamo andati in giornata. Basta prendere un trenino suburbano da non mi ricordo quale stazione di Mosca, infilarsi nella steppa bagnata e percorrerla per circa un’ora seduti su quelle panche di legno marcescente, immersi nell’odore di Russia, quell’odore che ti rimane appiccicato per giorni anche dopo il rientro in Italia, il sudore, la terra, il tabacco scadente, il freddo, la neve, il fango sotto le scarpe, i denti d’oro o di latta, le enormi signore della steppa piene di borse e di vestiti e di figli e di cose da chiedere, da raccontare, piene di fiori. Il treno passa in mezzo al niente, lo taglia, percorre chilometri e chilometri di campi sterminati, deserti, ogni tanto una piccola costruzione in legno, un orto con la recinzione completamente distrutta, putrescente, le barbabietole, lunghe strade di fango e di sassi, e il grigio, e il marrone. A volte si fanno soste incomprensibili in mezzo alla steppa. Non c’è stazione, non c’è un cartello. Il treno rimane immobile per qualche minuto nel nulla, tra gli alberi nella boscaglia; dalla folla si stacca qualcuno, raccatta le sue cose dal pavimento, chiede permesso, fa spostare i fumatori dai predellini, gli ubriachi con i denti marci, si carica sulle spalle le sue grandi buste o le ceste che si è portato da Mosca, e scende, si tuffa tra le betulle, prende dei sentieri invisibili e si lascia risucchiare dalla terra russa. Vanno a casa.

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Il budello di pietra

Nelle prigioni del castello di Ferrara. Si possono visitare, in tutto, tre celle, benché credo che definirle “celle” sia piuttosto riduttivo. A due di queste si accede percorrendo i corridoi sotterranei, dove, nonostante la giornata sia ventilata e, tutto sommato, non insopportabilmente calda, si viene travolti da una spaventosa cappa di umidità, che opprime da subito. Le porte delle celle sono basse, per entrare bisogna inchinarsi (penso al valore simbolico di questo inchino: il prigioniero si genuflette per entrare nella sua prigione; ma anche la guardia, se vuole entrare o deve portare il cibo, si deve genuflettere: così, ogni persona che entra nella cella, in qualche modo, deve inchinarsi al prigioniero); ma l’inchino non è sufficiente, perché, prima di arrivare all’ambiente della cella, c’è un piccolo corridoio, lungo circa un metro e mezzo e alto all’incirca allo stesso modo: un budello di pietra in cui per l’umido, il caldo, e la consapevolezza di dove ci si trova, comincia a mancare il fiato, si suda.
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Cronaca del mondo feroce IX

Congedo
Finisce con i nostri corpi esausti, le mani stanche, la testa che pesa e che fatica a combinare pensieri complessi. Siamo stanchi, la vita qui corre a una velocità diversa, si nutre di una frenesia diversa, pasticciona e arruffata a cui non siamo abituati. Ad esempio ogni volta che torniamo in camera c’è qualcosa che non funziona all’impianto di condizionamento. Non si può stare a letto con quarantotto/cinquanta gradi, non c’è pace, non si può fare la doccia né respirare. Ogni volta dobbiamo fare la scena di scendere i due piani di scale, chiamare qualcuno alla reception e avvisarlo del guasto. Ma non è mai un guasto: oggi ci hanno tolto il telecomando, ieri ci hanno semplicemente spento il condizionatore. Capiamo in fretta che si tratta di un giochino dell’arabo grasso che ci ha accolto all’arrivo, e che ogni giorno escogita un trucco per farsi chiamare e chiederci la mancia. La scena è lui che arriva in camera, schiaccia un pulsante su un telecomando che gli spunta all’improvviso dalla tasca e rimane fermo accanto al letto fingendo di sentire refrigerio. Se ne va soltanto nel momento in cui qualcuno di noi gli dà una moneta. Instaurare una guerra di nervi è inutile, lui è più allentato di noi e considera la scena parte integrante del suo lavoro. Ma dal terzo giorno non lo chiamiamo più, abbiamo trovato un altro tizio che ci ha fatto vedere come attivare l’aria condizionata direttamente dal condizionatore, senza passare per il telecomando. Il tizio è stato gentile, e non ha nemmeno fatto il gesto di chiedere un compenso. Stare in camera al fresco nelle ore più calde diventa un’abitudine oltre che una necessità: fuori, nel primo pomeriggio, la città sbraita sotto i cinquanta gradi del deserto. Continua a leggere “Cronaca del mondo feroce IX”

Cronaca del mondo feroce VIII

Connessione
Poi ci spingiamo in fondo, superiamo le mura per vedere cosa c’è oltre. Sappiamo di non trovarci molto, perché da quella parte la città finisce, e forse vogliamo soltanto arrivare di là e voltarci indietro a guardare il sistema di mura rosa che chiude la città vecchia e la ripara. Passiamo per vie strette, battute da uomini, moto e bestie, vie odorose di tutto, di spezie, di cavalli, di sudore, di menta, di fieno, di benzina, di terra, di ciuchi, di merda, di caldo. Camminiamo contro i muri, per recuperare un poco di ombra, e ci rovesciamo spesso dell’acqua sulla testa. Annusiamo. Penso che la vita di una città si misura anche e soprattutto dagli odori che emana, il grado di vita è direttamente proporzionale ai profumi delle sue strade e della sua gente. Se non c’è odore, la vita è finta, come da noi. Di vero c’è solo il gesto finto di occultare le proprie cose e il loro sapore. Marrakech odora invece in modo palese e smargiasso di uomini, di cibo e di tutte le attività che i suoi abitanti fanno durante le loro giornate. Odora spesso in modo sgradevole, come vicino alle concerie, ma odora in modo vivo. Sa di quello che bisogna fare per viverci, e nessuno osa protestare perché da una casa o da una bottega fuoriescono fumi o fragranze penetranti e antipatiche. Storia dell’Europa attraverso i suoi odori nel corso dei secoli. Storia dell’Africa. Continua a leggere “Cronaca del mondo feroce VIII”

Cronaca del mondo feroce VII

Dispersione
Faccio come se avessi ricevuto le monete, e ho il cappello pieno: posso continuare.
Sono tre scimmie, di diversa taglia. Sono incatenate alle braccia di tre marocchini in jeans e maglietta, e adesso mi stanno pesando sulle braccia e sulla testa. I tre uomini portano in giro le loro bestie per la piazza, le mettono addosso ai turisti per la foto e poi chiedono soldi. In Marocco tutti hanno qualcosa da proporre, e lo fanno con metodi bruschi, rapidi e spesso ineluttabili. Io ti offro di fare una foto con le mie scimmie, e dopo tu mi devi dei soldi. Non esiste il concetto – che cerco di spiegare senza successo – che, semplicemente, a me non me ne può fregare di meno di farmi fare una foto con una scimmia di cinque chili sulla testa (sul cappello), che non ho mai pensato di farmene fare una, e che non ho assolutamente intenzione di pagare per una cosa che non mi piace, che non ho chiesto e che mi è stata imposta. Continua a leggere “Cronaca del mondo feroce VII”

Cronaca del mondo feroce VI

Ancora sulla magnifica merce
La piazza è nera per i piedi e rosa per gli occhi. Tutto il peso del caldo della tarda mattina ci grava sulle spalle e ci bagna le palpebre. Nella Djema ci sono varie geografie, ma la prima è una geografia degli odori che è insieme una geografia della merce: a destra l’odore acidulo delle arance e degli agrumi segnala le lunghe file di carri dove si vendono le spremute. Scopriamo poi che non è solo da destra che viene odore di bucce e di sughi freschi, ma che in un certo senso questi bar elementari sono il primo, ampio anello di merci che circonda la piazza. Se partite dal centro e andate verso l’esterno, nella Djema, alla fine del vostro percorso troverete un arabo gentile che vi urla la sua spremuta. Una cerchia più interna è quella degli speziali, con le loro mille erbe e le mani nere con cui le scavano nei sacchi. Qui l’odore è più forte, anche se è ammazzato dal caldo e dalla stanchezza. Continua a leggere “Cronaca del mondo feroce VI”

Cronaca del mondo feroce V

La magnifica merce
Spellano le vacche per ricavarci dei pouff e degli zainetti che appendono negli interni delle botteghe schiacciandoli gli uni contro gli altri; dalle pelli di dromedario, invece, ricavano un tessuto più fine e delicato, e non si direbbe: non so cosa ci facciano, probabilmente portafogli, portagioie, cose così. A tratti mi rendo conto che questi uomini che ci fanno spontaneamente da guida potrebbero portarci ovunque, farci fare qualsiasi cosa. Siamo nella loro terra, percorriamo le loro vie e ascoltiamo tutto quello che hanno da dire prendendolo per vero; giriamo dove ci dicono di girare, annusiamo quello che ci dicono di annusare, e se si devono fermare per dire qualcosa a qualcuno noi, da bravi, aspettiamo in un angolo. Siamo due bambini che si fidano dei grandi, che si lasciano travolgere da quello che capita. Continua a leggere “Cronaca del mondo feroce V”

Cronaca del mondo feroce IV

Ancora immersione
Ma prima ci sono vie e vie sporche di terra, facce segnate che ci osservano passare con gli zaini e le bottiglie d’acqua in mano. Il monco continua a parlare, il suo è un monologo ininterrotto, ci spiega che cosa si vende nelle botteghe più nere e più fonde, quelle dove non si riesce a vedere dentro perché le pareti sono buie; ci indica una piccola moschea a un incrocio invaso dai carri, ci spiega che lì dentro, un tempo, esisteva una delle più antiche scuole coraniche del Marocco e che ancora oggi, per dieci dirham, si possono visitare le celle di pietra e di legno dove studiavano gli studenti. Si ferma all’improvviso davanti a una porta, ci dice di avvicinarci e farlo piano: la porta si apre su una scalinata grigia, stretta, che conduce al piano di sotto. Il monco dice che lì non si può scendere, ma che tutti sanno che oltre quella scala lavorano i bambini, cuciono le pelli negli scantinati dalla mattina alla sera. Dice che è un’attività illegale, che i bambini non possono lavorare. La faccia sporca di un uomo in camicia si affaccia dal basso, urla qualcosa in arabo al monco. Vedo i suoi occhi che ci studiano. L’arabo è una lingua brusca e concitata: sembra che gli arabi abbiano di parlare la stessa fretta che hanno di guidare. L’uomo deve aver chiesto al monco qualcosa come «Che cazzo vuoi?», perché la nostra guida si affretta a indicarci e a fare segni di diniego, come a dire: «Non ti preoccupare. Sono solo turisti, facevo vedere». Continua a leggere “Cronaca del mondo feroce IV”

Cronaca del mondo feroce III

Immersione
La prima notte è di caldo e colla. La nostra camera dà su una finestra che non c’è, che si affaccia su un corridoio interno dell’albergo. Se mi affaccio, attraverso una seconda finestra che un metro più in là si apre sulla città, vedo nella mezzasera il profilo rettangolare della Koutoubia. Ma la città non si sente quasi, e non si vede. Siamo come nella cabina di una nave che sta ferma dentro al porto. C’è qualcosa che non funziona nell’apparato di condizionamento, fa un caldo che tutt’oggi non ho capito se sia secco o umido. Sudiamo, a Laura si arricciano i capelli. Proviamo a dormire posizionandoci sotto quel filo di aria che esce dal condizionatore ma che è tiepida e ferma. Dormiamo poco e male, eppure siamo stanchi. Il primo richiamo del muezzin ci sorprende alle cinque del mattino mentre guardiamo fissi il soffitto. È un breve lamento amplificato che rimbomba contro la via, un crescendo cupo e a quest’ora spettrale. Dura pochi minuti, gli altoparlanti della moschea smettono presto di lagnarsi. Chissà se la gente davvero si è già alzata, ha buttato per terra i tappetini e con gli occhi impastati di sonno sta ringraziando in ginocchio il suo dio? Continua a leggere “Cronaca del mondo feroce III”

Cronaca del mondo feroce II

Avvicinamento e primo inoltro
Continua con un vento caldo che ci sorprende sulla scaletta dell’aereo. È sera, è l’ora in cui si cena e non c’è il sole, ma nello spazio aperto della pista c’è un vento spesso, maschile, che ci avvolge come l’aria di un phon e ci appiccica i vestiti ai corpi. Ci guardiamo come a dire che lo sapevamo che non è stagione, e che loro ci diranno che non è caldo, che per il Marocco i quarantadue gradi di quest’ora non sono poi tanti, a luglio, e che se c’è il vento si respira e non manca l’aria. Malika, la mamma di Iunes e Zaccaria, dice che da quando vive in Italia il caldo marocchino lo sente di più, ma che è più secco, e non soffriremo come a Milano. A loro tocca un altro viaggio, questa volta in macchina: alcune ore per raggiungere Beni Mellal, città natale di Malika, con il fratello e un amico che dalla mattina sono in aeroporto ad attendere il nostro volo che non c’è. Arriveranno a mezzanotte, dopo aver attraversato il niente di sabbia e costeggiato i monti dell’Atlante. Ci invitano ad andare a trovarli, dicono che ci ospiteranno nella casa di famiglia, ma questo nostro viaggio è di pochi giorni, è una toccata e fuga che ho regalato a Laura per la sua laurea e non avremo tempo di spostarci da Marrakech. Continua a leggere “Cronaca del mondo feroce II”