Laboratorio siberiano

La scorsa settimana, al Teatro dell’Opera di Roma è andata in scena, per la regia di Krzysztof Warlikowski, Da una casa di morti, l’opera che alla fine degli anni Venti Leoš Janáček ricavò dalle Memorie di una casa morta di Dostoevskij. Il Teatro mi ha chiesto, per il libretto di sala, un pezzo intorno al libro e al suo autore. Lavorando al testo, mi sono reso conto che, nella mia vita, non avevo mai scritto nulla su Dostoevskij. 

Fëdor Dostoevskij arrivò nella colonia penale – la katorga – di Omsk, nella Siberia sud-occidentale, il 23 gennaio del 1850. Era un uomo di ventinove anni, di salute piuttosto cagionevole, provato da circa otto mesi di detenzione preventiva nella fortezza di Pietro e Paolo, a Pietroburgo, dove, il 22 dicembre dell’anno precedente, aveva vissuto il momento più spaventoso della sua vita: insieme ai suoi compagni di detenzione, sul far dell’alba era stato prelevato dalla sua cella, dove pare si gelasse e, con indosso un pastrano troppo leggero e un cappello che non lo proteggeva dal vento, era stato condotto nella piazza dell’appello per essere fucilato. La sua colpa era quella di aver preso parte, durante il 1849, a una serie di incontri di un circolo di ispirazione socialista, il Petraševskij: vi si radunava, a cadenze regolari, una certa società progressista pietroburghese, che discuteva di letteratura e teorie politiche senza, pare, un vero intento sovversivo, benché alcuni dei membri fondatori avessero qualche velleità rivoluzionaria. Dostoevskij vi partecipò tre volte, ascoltò, prese la parola per affrontare certe questioni letterarie. Lesse però un documento che il governo imperiale considerava meritevole di condanna: una lunga lettera che il critico di sinistra Belinskij scrisse a Gogol’, prendendo posizione contro certe idee dello scrittore, divenuto un fanatico della teocrazia, e lanciando strali contro la Chiesa ortodossa e l’autorità imperiale. Il rapporto tra Dostoevskij e Belinskij è ambiguo e interessante: Belinskij salutò Povera gente, il romanzo d’esordio di Dostoevskij, pubblicato nel 1946, come un capolavoro, soprattutto per come ritraeva una certa condizione di disagio negli strati più bassi della popolazione. Ne fece insomma un baluardo della letteratura sociale. All’epoca, Belinskij era una sorta di papa delle patrie lettere: un suo articolo favorevole dava avvio a una carriera. E così fu per Dostoevskij, che divenne immediatamente un autore su cui tutta la società letteraria russa mise gli occhi. Benché gli fosse in qualche modo debitore, Dostoevskij non condivise mai le idee di Belinskij: ne riconosceva però il talento critico, lo spirito d’osservazione, e il confronto con lui lo stimolava. Lesse la lettera contro Gogol’ – lui, che amava Gogol’ alla follia – perché poneva alcune questioni che riteneva cruciali: ai miliziani che lo interrogarono dopo l’arresto, e che gli presentarono questa lettura come il principale capo d’accusa, disse che secondo lui la Russia aveva bisogno di molti cambiamenti sociali e di maggiore equità, ma che questi, cambiamenti ed equità, dovevano essere elargiti dallo zar. Disse: «Ho sempre avuto fiducia nel governo e nell’autocrazia». E disse: «Per me non c’è stato mai nulla di più assurdo di un governo repubblicano in Russia». Era sincero: il resto della sua vita, il suo Diario di uno scrittore e i suoi romanzi l’avrebbero dimostrato. Ma non bastò: delle 34 persone accusate di cospirare contro lo zar tramite gli incontri del circolo, 21 furono condannate alla fucilazione – e Dostoevskij era tra queste.

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Shpëtim Selmani, Ballata dello scarafaggio

Metto qui il pezzo che ho scritto sabato scorso, 27 maggio, su Tuttolibri, a proposito della Ballata dello scarafaggio, il primo libro di Selmani tradotto in italiano e uscito per Crocetti editore.

FvXma6pXsAArIw1Kosovaro, classe 1986, scrittore, poeta, attore teatrale, Shpëtim Selmani arriva finalmente in Italia per i tipi di Crocetti con questa Ballata dello scarafaggio che non è il suo primo libro (con un altro, L’opuscolo dell’amore, ha vinto qualche anno fa il Premio dell’Unione europea per la letteratura), ma che è, o mi pare, un ottimo viatico per entrare nell’immaginario di questo autore colto e ironico e per dare un’occhiata a una delle letterature balcaniche più interessanti ma meno mappate dal nostro mondo editoriale.
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Sacro potere, in libreria e in edicola

61rFIadbIyLSacro potere. Una sinfonia russa tra Chiesa e Stato è un piccolo libro che esce venerdì prossimo, 14 aprile, per la collana Accademia di Solferino libri. È figlio di un progetto un po’ più grande del semplice libro: sul sito del Corriere, fino a metà maggio solo per gli abbonati, poi per tutti, si potrà infatti ascoltare un podcast, della durata di circa un’ora, che è di fatto una versione breve del libro; in libreria (e in edicola, allegato al quotidiano) si potrà invece acquistare il libro, che è un’opera in cui si parla di poeti che credettero nella Rivoluzione e vi si perdettero, di dittatori atei e sanguinari che, nell’auto che li riporta verso la dača, intonano vecchi canti ortodossi, di guerre e di fratellanze, di autisti che conoscono segreti terribili, di patriarchi e di scrittori che credono che la Russia abbia una missione universale, di reliquie che dormono dentro sottomarini affondati, di statue che diffondono sentimenti dittatoriali, di Ucraina, di come si scrivono le icone, di santi e di folli di Dio, di eremiti, di Eurasia e di Europe che non sono altro che spiagge, o appendici di un mondo da fare, di messianismo, di cristianità vera e di cristianità finta, di bellezze che, per salvare il mondo, pensano di doverlo prima distruggere, di zar e di popi, di chiese che ospitano musei di guerra, di cattedrali che avrebbero potuto diventare templi del comunismo, di scalinate fatte di cingoli, di Bisanzio e di messaggi radio alla popolazione stremata, di letteratura russa, di guerre sante e messe di Pasqua.
Insomma le solite cose, ma non nel solito modo.

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La vampa, di Pier Franco Brandimarte

Questa recensione è uscita su Tuttolibri della Stampa di ieri, sabato 25 marzo

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Le prime pagine di La vampa sono occupate, anche se in modo non esclusivo, da questo episodio: Riccardo porta suo nipote Annibale, il narratore, a vedere i conigli e gli chiede di sceglierne uno; Annibale è piccolo, segue il nonno come si segue un patriarca, o forse un profeta, ovvero lo ascolta senza comprenderlo, ma fidandosi di lui; perciò immagina che il coniglio che sceglierà diventerà suo: così indica quello più dolce, bianco. Con un cenno Riccardo ordina al fattore di prendere la bestia, che viene uccisa e scuoiata davanti a loro e, poche ore più tardi, servita in tavola. Annibale sa che ciò che ha nel piatto è il coniglio che pensava di accudire, ma si fa forza: dopotutto, quei pezzi di carne che ora si trova davanti non hanno più nulla a che vedere con l’animale che aveva pensato di amare. Dunque mangia senza fare una piega, e in qualche modo capisce che quella che gli è stata impartita è una lezione, e che ha appreso una delle leggi fondamentali della famiglia Angelini. 

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La cinquina del POP 2023

Questa è la cinquina finalista del Premio Opera Prima di quest’anno:

La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera, di Alberto Ravasio, Quodlibet

Uomini di cavalli, di Pietro Santetti, Mondadori

Senza respiro, di Raffaella Mottana, Accento

Ragazza senza prefazione, di Luca Tosi, Terrarossa

Il Tullio e l’eolao più stranissimo di tutto il Canton Ticino, di Davide Rigiani, Minimum fax

La finale si terrà il 26 maggio alle ore 18,30, presso il Laboratorio Formentini per l’editoria, a Milano.

Michail Bakunin, Viaggio in Italia

Questo pezzo sul Viaggio in Italia di Michail Bakunin, ripubblicato da poco per i tipi di elèutheraè uscito su Tuttolibri di ieri 25 febbraio.

Per circa tre anni, tra il 1864 e il 1867, Michail Bakunin visse in Italia, la percorse da nord a sud, la osservò prima con l’occhio del viaggiatore e del pensatore politico, poi con quello dell’innamorato, infine con quello di chi è costretto ad abbandonare una patria; si stabilì a lungo a Napoli – che di tutte le città gli sembrava la più viva e la più piena di fermento rivoluzionario, ma non solo: amava visceralmente il caffè, ne sorbiva di continuo, e allora come oggi non c’era posto migliore, in Italia, per sedersi in un bar. Poiché aveva un’infarinatura di italiano, si trovò a suo agio nel leggere i quotidiani e nel documentarsi sulle questioni politiche e sociali che infiammavano il nostro Paese. Erano anni di fermento, sia per lui che per l’Italia: quando vi arrivò, l’Unità era stabilita da soli tre anni, ma il Paese era tutto da immaginare, da costruire, era un cantiere che da poco era stato aperto e che, in fondo, non è ancora stato chiuso, e Bakunin ne osservò e registrò tutti i sommovimenti, le contraddizioni, le ingiustizie e i dolori; ma erano anni cruciali anche per lui, come persona e come pensatore: è proprio nel 1864 che Bakunin, senz’altro influenzato anche dal clima che respirò nel nostro Paese, comincia a dedicare tutte le sue forze fisiche e intellettuali al Socialismo rivoluzionario. Vede, in questa nuova Italia, unita con un certo arbitrio e tenuta insieme a fatica, il malcontento delle classi subalterne, lo annusa, e pensa che qui da noi ci sia il terreno più fertile per far scoccare la scintilla di quella rivoluzione libertaria che ha in mente di far deflagrare, a piccole tappe, in tutta Europa. Così, a Firenze fonda un giornale (Libertà e giustizia) e un’associazione segreta, e poi gira, incontra rivoluzionari vecchi e giovani, e soprattutto scrive. Questi scritti, che parlano dell’Italia e della sua situazione, sono radunati in un piccolo volume, curato da Lorenzo Pezzica, uscito per elèuthera nel 2013 e oggi riproposto al pubblico con una nuova veste grafica. Si chiama Viaggio in Italia e raccoglie ciò che Bakunin scrisse tra il 1864 e il 1873, quando ormai dall’Italia si era separato ma la osservava da vicino, dalla Svizzera, con gli occhi forse colmi di rimpianto perché no, la rivoluzione nel nostro Paese alla fine non c’era stata.

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La disputa

Circa due anni fa Francesca Bonafini e Caterina Falconi mi contattarono per chiedermi se volevo far parte di un’antologia di “racconti di preghiera, pellegrinaggio, miracolo”, che sarebbe poi uscita per Avagliano con il titolo di La vita invisibile. Benché io non sia credente, mi capita ogni tanto di ricevere richieste di questo tipo, soprattutto dopo che ho pubblicato Il peso del legno – che, tra i libri che ho scritto, è uno di quelli che amo di più.
Avevo appena finito di leggere il libro che Vasilij Rozanov scrisse a proposito della leggenda del Grande Inquisitore e ne ero rimasto affascinato e turbato. Il risultato è questo racconto, che pubblicai con il titolo di Il miracolo, il mistero, l’autorità, ma il cui nome vero, credo, è La disputa. L’ho ripescato in questi giorni per una cosa che devo a fare a teatro, a marzo, e mi sembra buono. Così lo metto qui, senza un motivo particolare, nel giorno dell’anniversario della guerra e di una e-mail terribile in cui Michele Cocchi mi annunciava la malattia che l’avrebbe portato, nel giro di qualche mese, a non esserci più.

Tre grandi atti mistici, da cui dipendono le sorti dell’uomo, fungono da capisaldi della contemplazione religiosa. Sono l’atto della caduta nel peccato, che spiega ciò che è; l’atto della redenzione, che consolida l’uomo in ciò che è; l’atto dell’eterna sanzione per il bene e il male, del supremo trionfo della verità, che attrae l’uomo nel futuro. Le sorti dell’uomo possono essere sovvertite soltanto scuotendo uno di questi capisaldi. E una sola cosa l’uomo non potrà sopportare: la frattura dell’essere e della coscienza con i tre atti mistici, della fede nei quali egli vive: questo pensa mentre si incammina.
E pensa:
Ogni volta che la sua sofferenza è troppo grande, che l’oltraggio è insopportabile, nell’anima si desta il desiderio di non separarsi da questa sofferenza, di non allontanare da sé questo oltraggio. Vi è qualcosa che mitiga la stessa sofferenza nel sapere che essa non è meritata e che non sarà ripagata.
E pensa:
Lo spirito umano è legato strettamente, troppo strettamente, nelle idee, nei concetti e nei sentimenti alla misteriosa conformazione del suo corpo. E le sofferenze degli innocenti, questa indicibile sofferenza di te che sei l’Innocente, è il risarcimento dovuto al Padre per il peccato originale[1]: è una legge di nascita, e tu, nascendo, non gli sfuggisti, dunque anche tu, che sei il Perfetto, peccasti per il solo motivo di essere venuto al mondo. Ed ecco che questa ascesa al monte, queste piaghe e questa corona che ti buca il cranio sono l’atto attraverso cui tu stesso, il Puro, ti purifichi per poterti presentare davanti al Padre senza la vergogna di esser nato.

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Elvira Mujčić, La buona condotta

Questa recensione del nuovo libro di Elvira Mujčić (Crocetti editore) è uscita su Tuttolibri della Stampa di sabato 18 febbraio.

Nel Kosovo immaginato, ma parente stretto di quello reale, in cui è ambientata questa piccola storia, c’è un minuscolo paese, Šumor (tradotto in italiano: “bisbiglio”), in cui abitano 2539 persone, così suddivise: 1362 albanesi, 1177 serbi. Siamo nel 2012 e Miroslav (il cui nome significa “colui che onora la pace”) fa il medico di professione ed è un uomo mite e riflessivo; per qualche ragione che forse non è del tutto chiara nemmeno a lui ha preso una decisione che cambierà presto, e non in meglio, la sua vita: si è candidato alla carica di sindaco del paese. Serbo, ha in mente una rivoluzione gentile, figlia del buon senso: vuole provare a convincere serbi e albanesi a convivere in modo pacifico in un territorio che, al di là degli stravolgimenti della Storia e degli odii etnici, appartiene di fatto a entrambe le popolazioni. Ha perfino ottenuto, senza bisogno di sotterfugi o corruttele, l’appoggio di un centinaio di albanesi che semplicemente si fidano di lui, della sua pacatezza e del progetto politico che porta avanti. Paradossalmente, chi è meno convinto di questa sua idea sono proprio i serbi – e non tanto quelli del paese, ma quelli di Belgrado: non ci si candida alle elezioni indette in un Paese che il proprio governo non riconosce, perché significa legittimarlo, piegarsi a lui e ai voleri di una comunità internazionale percepita come ostile.

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Régis Jauffret, 1889

Questo pezzo su 1889 di Régis Jauffret, pubblicato in Italia dalle edizioni Clichy, è uscito oggi su TuttoLibri della Stampa.

51WNWowyd4LRégis Jauffret è, da molti anni e senza ombra di dubbio, uno degli scrittori di lingua francese più grandi e coraggiosi, e largo merito va riconosciuto alle Edizioni Clichy che, ormai stabilmente, portano i suoi libri nel nostro Paese: attraverso opere come Autobiografia, Papà e il mastodontico, ipnotico ciclo delle Microfictions, Jauffret sta costruendo un’esplorazione squisitamente letteraria del lato oscuro di noi esseri umani, e mette in scena mondi in cui la violenza, l’orrore e la colpa sono raccontati con lirismo e mano ferma, e sempre senza fare sconti al lettore.

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