L’equivoco americano

Sulle Lezioni americane di Italo Calvino

Siccome è il centenario della nascita di Calvino, è capitato, in questi mesi, che qualcuno mi domandasse di scrivere un pezzo su di lui o di ragionare su uno dei suoi motivi. Così, ho cominciato a metter giù alcune cose che penso. Il pezzo che segue era stato pensato in origine per una rivista scolastica con cui collaboro. Visto il tono, che è molto personale, e le opinioni, che sono un po’ “forti” e vanno in controtendenza rispetto a ciò che, normalmente, la scuola pensa di Calvino e il modo in cui lo usa, abbiamo convenuto che è meglio non pubblicarlo. Ma siccome non amo sprecare le cose e ritengo questo lavoro un primo tassello per una riflessione più ampia, lo metto qui, con qualche modifica rispetto alla prima versione ma mantenendo il “voi” a cui mi rivolgo (gli studenti) e certi riferimenti al lavoro da svolgere in classe che, mi pare, rendono un po’ viva quella che altrimenti sarebbe una riflessione da rivista.

Questo pezzo parla di un autore con cui non sono mai riuscito a entrare davvero in contatto: non mi piace – ma questo è in realtà un problema secondario, poiché la storia della letteratura è piena di autori che non amo ma di cui riconosco l’importanza e che, dunque, regolarmente leggo e da cui cerco di trarre dei benefici: penso al polacco Witold Gombrowicz, un genio assoluto la cui lettura mi costa una fatica immane, soprattutto perché ho la sensazione di non capirlo mai del tutto; o a Ivan Turgenev, tra i grandi dell’Ottocento russo, di cui ho letto varie opere senza amarne davvero nessuna, perché in fondo mi annoia: ma essendo lui un maestro di stile e di costruzione dei personaggi, ogni tanto torno sulle sue opere “per vedere come si fa”. L’elenco potrebbe diventare molto lungo e poco interessante sia per me che per voi: ma se dovessi davvero compilarlo, senza dubbio vi entrerebbe Italo Calvino. Non l’ho mai amato, fin dai tempi in cui, in quinta elementare, il maestro ci leggeva i racconti del Marcovaldo che, ancora oggi, è in fondo l’opera calviniana a cui, per questioni affettive, sono più legato. Poi ho letto altre sue cose, anche se non posso dire di conoscerlo approfonditamente: Gli antenati, le Fiabe italiane, che considero il suo lavoro più importante, Le città invisibili, La giornata di uno scrutatore, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Perché leggere i classici. E le Lezioni americane, che ho letto, e poi riletto, e poi riletto, rimanendo ogni volta sbalordito: come è possibile che questo piccolo libro irrisolto e perfino un po’ sciatto sia il mattone su cui è edificato il pensiero letterario italiano degli ultimi quarant’anni? Come è possibile che i suoi cinque argomenti, sacrosanti ma arbitrari e, in fondo, trattati in modo incompleto – Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità – siano diventati dei motivi, delle parole d’ordine per chi si occupa di letteratura? Come è possibile che tutti leggano queste Lezioni e vi ricavino delle poetiche, delle visioni del mondo? Certo, Calvino era un uomo di potere: scrittore famoso e celebrato, lavorò per decenni nella casa editrice italiana più importante, fondò riviste, scoprì talenti, era amico dei francesi e, in più, queste Lezioni furono preparate per le Norton Lectures. In più, le Lezioni sono la sua ultima opera (e pochi, in Italia, resistono alla tentazione, per lo più sciocca, di considerare l’ultima opera di qualcuno come una specie di “testamento”): insomma, hanno tutto per ricevere attenzione. Ma la cosa sbalorditiva è che l’attenzione che hanno ricevuto è per lo più acritica: si tratta sostanzialmente di elogi, peana, dichiarazioni d’amore, come se non si potesse criticare Italo Calvino e come se queste sue Proposte per il nuovo millennio fossero una pietra miliare, qualcosa davanti alla quale non si può fare altro che andare in estasi e prendere appunti.

E invece le Lezioni americane sono un’opera mediocre, perfino dannosa in certi casi. Non è tutta colpa di Calvino, ovviamente. L’opinione è mia, e del tutto personale, ma confortata da almeno un grande studioso, Claudio Giunta, che in un pezzo illuminante di qualche anno fa ha messo in fila i motivi per cui le Lezioni sono un’opera fallimentare e la sua ricezione acritica il sintomo di un Paese culturalmente addormentato. Per questo articolo, Giunta ha ricevuto critiche – ed è normale e sano che sia così – ma, sorprendentemente, poco o nessun appoggio. Sembra quasi che a tutti tranne a lui piacciano queste Lezioni, ed è una cosa stupefacente. Tanto che, qualche tempo dopo il pezzo che ho appena linkato, Giunta ha ripreso il filo del discorso e ha ribattuto ad alcune critiche ricevute.

Quello che vorrei fare da qui in avanti è spiegare che cosa non va nelle Lezioni e, se ne avrò la capacità e la forza, proporre un gioco (le mie proposte per il nuovo millennio) e un invito (le vostre). Vediamo che succede.

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Contro le Lezioni
Bisogna anzitutto dire che le Lezioni americane non sono un libro: sono degli appunti che Calvino prese nel 1985 intorno agli argomenti che aveva scelto per le Norton Lectures; la morte gli impedì sia di tenere le lezioni sia di scrivere i testi, di aggiustarli. Dovete prenderli così: sono dei lunghi post-it in cui Calvino ha segnato la traccia, il canovaccio di ciò che voleva dire. Nessuno sa che forma avrebbero avuto i testi definitivi se avesse avuto il tempo di scriverli e di ragionarci su, anzi, nessuno in fondo sa se avrebbe voluto dar loro una forma e cavarne un libro. Questo spiega in parte una certa sciatteria linguistica, e il fatto che, a volte, anziché argomentare e approfondire un tema, Calvino si limiti ad accumulare citazioni, cognomi di grandi autori – Giunta ha fatto il conto, e compaiono circa 90 nomi in un centinaio di pagine, che è proprio quello che si fa quando si prendono appunti personali: è inutile spiegare un concetto a sé stessi, è sufficiente richiamare un nome. Ma, quando poi si scrive un libro, bisogna entrare nel merito delle questioni, cosa che nella Lezioni non succede quasi mai. Ora, questa non è una colpa di Calvino, naturalmente: semplicemente, non ha avuto il tempo di lavorarci. Epperò il libro che risulta da questo non-lavoro è superficiale: ci sono momenti in cui Ovidio è accostato a Montale o Parmenide a Cartesio e a Kant senza che questi accostamenti, apparentemente arbitrari e un po’ gratuiti, ricevano una spiegazione; sono messi lì semplicemente per il gusto della suggestione, dell’associazione. Testi distanti tra loro centinaia di anni, scritti in condizioni diverse da autori che, in alcuni casi, non si somigliano (e come potrebbero?) vengono accostati, paragonati tra loro per il gusto postmoderno di assemblare cose, di avvicinare l’inavvicinabile e far partire delle associazioni di idee. Ma dove porta questo modo di ragionare? A nulla, se non si approfondisce la questione: io ora potrei citarvi il film Barbie, i BTS e Petrarca, dicendo che tutti e tre hanno a che vedere con l’amore, ma il legame tra loro è completamente arbitrario, infondato: potrei mettere, al posto di uno di loro, una pubblicità e trovare di nuovo un nesso, ma non spiegherei nulla, non chiarirei nulla sull’amore e sui suoi significati profondi, se mai ce ne sono. L’unica cosa che voi capireste è di che natura è fatto il mio immaginario.

Insomma, a leggere queste Lezioni si incontrano dei gran elenchi, ma poche connessioni, poca argomentazione. E questo – il preferire le suggestioni, che sono il condimento, all’argomentazione, che è la sostanza – li rende un libro superficiale, vagamente sapienziale. Sulla stessa falsariga ci sono alcuni passaggi che, a leggerli, suonano bene, ma a ragionarci su non dicono nulla. Faccio un esempio preso tra i tanti possibili: in Leggerezza, a un certo punto Calvino scrive che «il miracolo di Leopardi è stato di togliere al linguaggio ogni peso fino a farlo assomigliare alla luce lunare». È una frase a effetto, e a qualcuno può piacere. Ma che vuol dire? Siamo in un passaggio in cui si parla della bellezza del linguaggio di Leopardi: Calvino ha appena detto che il suo merito è stato quello di rendere lievi cose come il peso del vivere, e che il richiamo alla luna conferisce ai suoi discorsi levità, sospensione, incantesimo. Però che vuol dire che il linguaggio assomiglia alla luce lunare? Nulla. È una suggestione, anche piacevole se volete, ma non significa nulla. Per chi, per esempio, ha paura di camminare da solo di notte, la luce lunare ha qualcosa di spettrale e opprimente – altro che levità e incantesimo. La luce della luna è un ingrediente fondamentale dei film horror, per esempio, e lì significa paura, morte. Dunque Calvino ha sbagliato? No. Per lui la luna è lieve e lieve è Leopardi. Ma è appunto una suggestione, una sensazione sua che, per funzionare per altri, avrebbe bisogno di essere sciolta, argomentata. E Calvino, in questi suoi appunti, non lo fa: non spiega, perché appunto sta scrivendo delle note. Ma allora perché chi lo ha letto e lo continua a leggere pensa che passi come questo siano uno dei vertici del pensiero critico del Novecento italiano? Come fa a non vedere che sono passi emotivi, in cui manca un pensiero forte e strutturato?

Ma non voglio divagare. Uno dei grandi meriti delle Lezioni è quello di aver dato delle coordinate. Calvino, in sostanza, trova cinque parole-chiave che, secondo lui, sono dei possibili modi per interpretare il mondo. E queste chiavi sono, l’abbiamo visto, Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità e Molteplicità. Quest’idea, benché un po’ schematica, è un colpo di genio: se la letteratura è un modo per leggere la realtà, ci saranno delle parole, dei concetti che le appartengono e che vanno perseguiti affinché la realtà si faccia leggibile.

La prima lezione, la più famosa, è dedicata alla Leggerezza, e poggia su un’affermazione che, oggi, può suonare paradossale: «(…) sono stato portato a considerare la leggerezza un valore anziché un difetto». A metà degli anni Ottanta, insomma, uno che voleva parlare di leggerezza doveva giustificarsi: si direbbe che era considerato “serio” ciò che era lento, pesante, meditato; un discorso sulla leggerezza poteva essere facilmente scambiato per un elogio della superficialità. Ovviamente non è così, Calvino non intendeva elogiare la superficialità, anzi: intendeva dire che si può raccontare il mondo senza per forza essere noiosi e pesanti. Giustissimo. Però succede che il discorso che fa Calvino è, appunto, un po’ superficiale: dopo molte letture, dopo aver preso appunti e meditato su quello che ha scritto, confesso che non ho ancora ben capito che cosa intenda davvero per “leggerezza”. Parla di Perseo, e del fatto che per affrontare Medusa egli si faccia trasportare da ciò che c’è di più leggero (i venti e le nuvole), e dice che dal sangue del mostro nasce Pegaso, il cavallo alato. Sono immagini belle, ma non capisco perché, attraverso di loro, dovrei capire come la leggerezza mi aiuti a interpretare il mondo. Il cavallo è leggero perché vola? Non saprei: un aereo vola, ma non mi pare che sia un oggetto leggero. Poi Calvino passa a Lucrezio, che nel De rerum natura parla degli atomi, dell’infinitamente piccolo: ma, di nuovo, si tratta di una suggestione, di un’immagine della leggerezza (anche se io, se penso a un atomo, non lo associo alla leggerezza). Vado allora a cercare i passi in cui, se così si può dire, l’autore dà una definizione di leggerezza. Eccoli: «Un alleggerimento del linguaggio, per cui i significati vengono convogliati su un tessuto verbale come senza peso; (…) la narrazione d’un ragionamento o d’un processo psicologico in cui agiscono elementi sottili e impercettibili, o qualunque altra descrizione che comporti un alto grado di astrazione; (…) una reazione al peso di vivere». Che cosa si intende con un “tessuto verbale come senza peso”? Vuol dire parlare facile? Essere comprensibili a tutti? O scegliere vocaboli particolari, semplici? Quali? E quali sono gli elementi “sottili e impercettibili”? Le cose astratte? Ma né Lucrezio né i miti parlano in modo astratto, anzi. Insomma, qui Calvino fa degli esempi di cose leggere, ma non mi spiega che cos’è la leggerezza e perché essa sia una “proposta per il nuovo millennio”.

Provo con la Rapidità, altro concetto intelligente ma pericoloso, perché contiene il rischio della fretta, e dunque, di nuovo della superficialità. Ecco come ne parla Calvino: «In un’epoca in cui altri media velocissimi e di estesissimo raggio trionfano, la funzione della letteratura è la comunicazione tra ciò che è diverso in quanto è diverso. Un ragionamento veloce non è necessariamente migliore d’un ragionamento ponderato; tutt’altro, ma comunica qualcosa di speciale che sta proprio nella sua sveltezza». Mi piace la definizione della funzione di letteratura che dà: è una sorta di “scarto dalla norma” rispetto a tutto il mondo, e mi piace anche che, sostanzialmente, il discorso sulla rapidità sia un discorso basato, benché questa parola non compaia mai nel capitolo, sulla selezione: Calvino dice sostanzialmente che raccontare significa trascurare i dettagli inutili in favore delle cose importanti, ma che, allo stesso tempo, si può trarre un grande piacere nella digressione (e fa l’esempio del più grande divagatore di tutti i tempi, Laurence Sterne) e nella ripetizione (come nei ritornelli delle canzoni, esempio mio). Il punto è che si ferma un po’ qui: dice queste cose, che sono sostanzialmente le prime che vengono in mente quando si pensa alla rapidità come valore, e poi non va oltre.

Vediamo l’Esattezza. L’esattezza vuol dire, dice Calvino, soprattutto tre cose:

  • Un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato;
  • L’evocazione di immagini visuali nitide, incisive, memorabili («icastiche»)
  • Un linguaggio il più preciso possibile

La letteratura è una mozione d’ordine, insomma: il mondo è un caos dentro cui i libri possono ritagliare piccole isole ordinate, mondi compiuti. Il linguaggio deve essere preciso, le immagini chiare, l’opera comprensibile. Sono tutti concetti di buon senso, mi pare. Ottimo. Però sentite come, alla prova dei fatti, Calvino declina questi concetti – saccheggio di nuovo il saggio di Claudio Giunta, che cita questo passo delle Lezioni, «Nel suo saggio su Eureka di Poe, Valéry s’interroga sulla cosmogonia, genere letterario prima che speculazione scientifica, e compie una brillante confutazione dell’idea di universo, che è anche una riaffermazione della forza mitica che ogni immagine di universo porta con sé», e si chiede: «Che significa “confutare l’idea di universo”?» L’universo è un’idea, domando io? E la si può confutare? Fate un tema in classe, domani, in cui confutate l’idea di universo. Non vuol dire nulla. Qualche pagina prima, Calvino se l’era giustamente presa contro il linguaggio usato in modo «approssimativo, casuale, sbadato». Ora, a me questo «confutare l’idea di universo» sembra un brutto verso di una canzone di un gruppo pop che vuole fare il colto. E badate: non mi sto accanendo su un passo particolare, le Lezioni sono piene di queste espressioni retoriche e in fondo vuote. Calvino le avrebbe sicuramente spiegate, o scrivendo il suo saggio le avrebbe abolite in modo da risultare meno approssimativo. Non ha potuto farlo, e il problema è che chi è venuto dopo di lui ha pensato (e pensa) che siano buone e chiariscano dei concetti che in realtà non ci sono.

Permettetemi di saltare la Visibilità: negli appunti che ho preso nel corso delle mie varie letture, di questa lezione non è rimasto quasi nulla. Ho sottolineato qualche passaggio, in cui si parla di immaginazione e immaginario, ma non c’è niente di significativo. Vado dunque all’ultima lezione, la Molteplicità.
Ecco come Calvino la definisce: «Il romanzo come enciclopedia, come metodo di conoscenza, e soprattutto come rete di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo; il saper tessere insieme i diversi saperi e i diversi codici in una visione plurima, sfaccettata del mondo; una campionatura della molteplicità potenziale del narrabile. Magari fosse possibile un’opera che ci permettesse di uscire dalla prospettiva limitata d’un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola…».È un’idea che molti hanno avuto prima di lui (Flaubert – di cui Calvino parla – ha perfino provato a metterla in pratica in un romanzo, Bouvard e Pécuchet, che è un tentativo esplicito di fare un’enciclopedia e che, significativamente, è rimasto incompiuto: un libro che vuole parlare di tutto, di fatto, non può avere una conclusione) e che, oggi, forse non chiameremmo più “molteplicità”. Useremmo piuttosto una parola più “nostra”, più composita, e che è una delle proposte che, timidamente, vorrei avanzare: Complessità. Complessità non significa che le cose sono complicate, ma complesse: secondo lo Zingarelli, la complessità è la «caratteristica di un sistema il cui comportamento globale non può essere determinato dalla somma dei comportamenti delle singole variabili, a causa del numero troppo elevato di queste, e il cui studio necessita di un modello semplificato». È un sistema complesso un bosco, la vostra classe, un libro. Il mondo. Per capirla bene, convocate i vostri prof di Lettere, di Scienze, di Matematica, di Fisica, di Geografia e di Storia, ma convocateli nello stesso momento, e chiedete loro di parlarvi simultaneamente di una mela, non importa se cade (il fatto è che, se cade, il prof di Fisica parte avvantaggiato).

Nella complessità, come nella molteplicità, rientrano tutti i linguaggi possibili: pensate di dover raccontare anche solo una vostra giornata, pensate a quante lingue avete incrociato – la vostra madrelingua, la lingua che si parla in classe, il dialetto, la musica che avete ascoltato o suonato, le parole particolari che usate con quell’amica, quelle che appartengono soltanto a voi e alla persona che amate, il linguaggio di Tik Tok, quello delle chat, e poi i video, un quadro che avete visto, un disegno che avete fatto ecc. E, a volte, questi linguaggi sono accaduti nello stesso istante, perché mentre eravate in classe, all’intervallo, e stavate seduti accanto alla persona a cui volete bene, scrollavate il telefono, ricevevate un messaggio e qualcuno, più in là, faceva partire una canzone, mentre un altro sfogliava il libro di storia dell’arte e vi faceva vedere com’è strano, spaventoso e perfino un po’ porno Il giardino delle delizie di Hieronymus Bosch. Ecco, provate a descrivere tutto questo: è il vostro mondo. Come si fa? Beh, è un problema per narratori, e Calvino lo spiega facendo riferimento al più complesso dei nostri scrittori, quello che ha davvero provato a infilare tutto dentro la sua pagina: Carlo Emilio Gadda, uno che vedeva il mondo come un enorme gomitolo indistricabile, e lo ha raccontato inventandosi linguaggi, complicando trame, giocando con le parole e spingendosi dove pochi, prima di lui, avrebbero detto che ci si può spingere.

Ma, ecco, di nuovo Calvino dice e non dice, accosta Gadda a certe scoperte scientifiche e compie anche un errore grossolano, come rileva Claudio Giunta: fa capire che Gadda, nel suo capolavoro, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, che è del 1957, ha anticipato con un colpo di genio la teoria del Principio di indeterminazione. Solo che Gadda di questo principio non ha parlato mai (non sappiamo nemmeno se l’abbia studiato) e soprattutto il suo scopritore, il fisico Werner Heisenberg, ne aveva parlato nel 1927. Insomma un pasticcio. Cito Giunta, che punta il dito contro questo modo un po’ disinvolto di mescolare discorso scientifico e suggestioni letterarie per dare un’immagine del mondo: «l’immagine estrapolata dallo scrittore per forza di suggestioni verbali, e non alla luce di una vera conoscenza dei fatti scientifici, è arbitraria, falsa e irrilevante. Questi giochi di parole non portano a niente, non dicono niente né sulla scienza né sul mondo. Sono un modo spiccio per sentirsi “nel vivo del dibattito” e “uomini del proprio tempo” (…)». Detto altrimenti: fare riferimento a una teoria scientifica per spiegare i libri e il mondo ha senso solo nella misura in cui si conosce approfonditamente questa teoria e se ne parla diffusamente e con cognizione; altrimenti, vuol dire semplicemente cavare un’immagine, una metafora sofisticata, che però non dice nulla perché è vuota, superficiale. Dire che qualcosa “ti mette le ali” non dice nulla sulle tecniche di volo o sulle correnti atmosferiche: è semplicemente usare un’immagine, e questo non porta a nessun tipo di conoscenza.

Nuove parole
Insomma, le Lezioni sono un’opera approssimativa, stracolma di cognomi ma povera di argomenti, il cui merito è stato quello di aver individuato (ma non approfondito) alcune parole-guida, arbitrarie ma interessanti. Lo dico davvero: i maggiori stimoli intellettuali arrivano a volte per opposizione, vale a dire grazie a qualcuno con cui siamo in disaccordo o non stimiamo, perché questo disaccordo ci costringe a pensare a un’alternativa nostra.

Perciò vi propongo un gioco. Quali sono le vostre Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità e Molteplicità? Ovvero: quali sono, secondo la vostra visione delle cose, le parole, i concetti, che meglio descrivono il mondo in cui viviamo? Vi propongo velocemente le mie, perché non è giusto lanciare una sfida e poi nascondersi. Ma tenete conto che non sono definitive: ci sto ragionando su da un po’, e ci vuole tempo per fare queste cose. Diciamo che ci sono i lavori in corso. Della Complessità, che sostituisce e integra la Molteplicità calviniana, ho detto poco sopra.

Poi vorrei ragionare sull’Irrealtà, che vuol dire, in fondo, ragionare su che cosa è reale e cosa no. Senza fare il moralista però, ovvero senza tirarla in lunga sul conflitto tra social e “vita vera”: chi se ne frega. I social fanno parte della vita vera, l’opposizione non esiste. Credo che il discorso sull’Irrealtà/Realtà dovrebbe poggiare sulla percezione che ciascuno di noi ha di sé, su qual è il nostro posto nel mondo e, in definitiva, sull’esperienza diretta che abbiamo di quello che ci succede intorno. In passato ne ho scritto, tra l’altro, qui, qui, qui e qui, perciò non mi dilungo.

Un’altra parola è Incompletezza. Siamo tutti incompleti, non finiti. O, guardandola in positivo, siamo tutti in evoluzione. Il mondo va veloce, ma anche noi. Parlando della Molteplicità, Calvino ricorda come coloro che hanno provato a scrivere opere che avevano l’ambizione di contenere tutto (Flaubert, ma anche il Musil dell’Uomo senza qualità) hanno sostanzialmente fallito. Il mondo non è riassumibile, non lo si può cacciare tutto dentro a un libro, perciò si ribella, diventa irraccontabile, porta gli autori che hanno la pretesa di domarlo quasi alla follia. Ecco, forse oggi abbiamo accettato l’incompletezza, l’impossibilità di raccontare tutto. Internet contiene tutto, ma non è l’opera di un singolo individuo, è l’opera di tutti. Noi, come singoli, possiamo ricavarci uno spicchio. A me questo sembra un tema, una possibilità. Non so.

Mi fermo qui. Sarebbe bello, se mai troverete il tempo e il modo di lavorare in classe alle vostre nuove Proposte per il millennio in cui viviamo, che le inviaste, sarebbe bello raccoglierle e discuterne. Per vedere cosa viene fuori e per dire al mondo che, ecco, noi siamo qui e lo osserviamo, noi ci siamo.

 

 

 

 

 

Un pensiero riguardo “L’equivoco americano

  1. Non sono uno studente, sono solo un buon lettore e sto aspettando con impazienza che finisca questo anno interamente dedicato a Calvino. Ho letto e riletto i suoi libri, niente, non mi hanno mai detto niente di straordinario come da mesi ripetono tutti (convegni, festival, trasmissioni radiofoniche e televisive) Chiaramente sono io che non capisco niente, ma il fatto che un bravo scrittore come Tarabbia e adesso leggo anche Giunta sollevino qualche dubbio mi conforta… Ora sotto con il libro del generale Vannacci perché bisogna capire perché T con zero avrà venduto al massimo 10 copie e Vannacci 100000.

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