Due libri con il Corriere della sera

Per un caso, nel giro di due giorni, oggi e domani, escono in edicola, con il Corriere della sera, due libri che ho scritto: il primo, l’uscita di oggi, è Il giardino delle mosche, che viene ripubblicato come sedicesimo titolo della collana dedicata al True crime che il Corriere sta portando avanti da qualche mese;

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il secondo, che esce domani, è invece un libro che non porta il mio nome in copertina: si chiama Un racconto breve e fa parte della serie di Lezioni di scrittura che da qualche tempo la Scuola Holden sta mandando nelle edicole. Ho scritto i testi e una decina di esercizi, la gran parte dei quali è stata in seguito sviluppata da persone dello staff della scuola. Non è propriamente un manuale di scrittura: non vi si dice «per fare un racconto fate questo e quello», non si danno regole né dritte, se non, per così dire, tangenzialmente; c’è una prima parte in cui si rinvengono certe caratteristiche che un racconto deve avere per funzionare e ce n’è soprattutto una seconda in cui si tenta una specie di tassonomia dei modelli di racconto, sviluppata sulla base di esempi e giocoforza incompleta – per questioni di spazio disponibile e di povertà di spirito dell’autore.
I modelli classificati sono sei:

il racconto a enigma, vale a dire un racconto che ruota attorno a qualcosa che il personaggio, e con lui il lettore, deve scoprire;

il racconto-confessione, vale a dire un racconto dove il narratore dice qualcosa di sé, racconta un episodio del passato o addirittura fa un bilancio di tutto il suo percorso;

il racconto-ritratto, altrimenti detto bozzetto;

il racconto-romanzo, vale a dire quel racconto che, anziché raccontare un momento della vita di qualcuno, ne racconta molti, distribuendoli sulla linea del tempo;

il racconto a variazioni, vale a dire quel racconto in cui succede più volte la stessa cosa, ma non succede nello stesso modo;

il racconto che riscrive, tenendo come sottotesto racconti di altri, ma anche il mito, la favola, le Scritture e così via.

Non sono modelli rigidi: so bene che la maggior parte dei racconti ne mescola due, tre o anche di più, e ogni lettore può e deve trovare il proprio percorso e punto di vista. Non volevo fare un manuale pratico, perché mi sembrava inutile (il libro è il trentatreesimo della serie, le tecniche della narrazione sono già state spiegate diffusamente da altri autori più precisi di me): volevo divertirmi facendo una cosa un po’ diversa dal solito e dire nel mio piccolo qualcosa che, per quanto ne so, non si dice spesso a proposito delle forme della narrazione.

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Il musico, l’esule, il patriarca, la nonna e la letteratura occidentale

In un romanzo che pubblicai alcuni anni fa raccontai, ma come di passaggio, di certe resistenze che Angelo Giuseppe Roncalli, il futuro papa Giovanni XXIII, esibì nei confronti di Igor’ Stravinskij all’epoca in cui era patriarca di Venezia. Mi riferivo in particolare a un episodio del 1956, quando Stravinskij, che intrattenne con la città per tutta la vita una lunga storia d’amore, nel corso delle interminabili contrattazioni per un concerto che avrebbe dovuto tenere nella Basilica di San Marco scrisse al patriarca, per il tramite del direttore artistico del Festival internazionale di musica contemporanea Alessandro Piovesan, che avrebbe volentieri aggiunto al programma pattuito la riarmonizzazione di un mottetto di Carlo Gesualdo. La risposta di Piovesan si fece attendere alcune settimane, ma infine il direttore del festival scrisse, non senza imbarazzo, che il patriarca aveva storto il naso davanti all’ipotesi di rappresentare un napoletano nella cattedrale di Venezia e che, inoltre, Carlo Gesualdo era un uxoricida – dunque non la figura più adatta per essere celebrata in una basilica. Insomma: il patriarca negava a Stravinskij il permesso di dirigere Gesualdo nella sua chiesa. La seconda motivazione di questo diniego, quella dell’uxoricidio, non mi stupì: era bigotta, ma dopotutto aveva senso; la prima, quella razzista, invece mi turbò: possibile che colui che, oggi, è conosciuto come il «papa buono» negasse asilo nella propria chiesa a un meridionale?
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Jan Karski

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Il suo vero nome era Jan Kozielewski, ma nel corso della sua vita travagliata lo ha cambiato molte volte: all’inizio della Seconda guerra mondiale, per esempio, fu per alcuni mesi Witold Kucharski; dal 1943 prese il nome di Jan Karski, e con questo pseudonimo convisse fino alla morte, avvenuta nel 2000 a Washington. Era nato nel 1914 a Łódź, nel centro esatto della Polonia, era molto cattolico, studiò Giurisprudenza all’Università di Leopoli, che all’epoca, e fino al 1945, era una città polacca e aveva una delle università più prestigiose dell’Europa centrale. Poi venne la guerra e tutto cambiò: per lui, per la Polonia e per il mondo intero. Nel 1939 il governo polacco fuggì da Varsavia e si ricostituì clandestinamente a Londra, da dove diresse l’Armia Krajowa – il movimento di resistenza che, tra le varie cose, contribuì all’insurrezione di Varsavia del 1944.

Kozielewski, che dopo la laurea intendeva intraprendere la carriera diplomatica, cominciò a collaborare con il governo in esilio inviando a Londra dei report sulla situazione della Polonia in seguito all’invasione nazista: aveva dalla sua, oltre che una buona dose di coraggio, anche una memoria prodigiosa e uno sguardo che sapeva essere imparziale. Il governo polacco cominciò ad affidargli incarichi diplomatici sempre più importanti finché, nel 1940, quando ormai viveva in semiclandestinità e aveva assunto il nome di Witold Kucharski, venne arrestato dalla Gestapo e torturato. Passò alcuni mesi nelle carceri naziste e, quando uscì, scoprì che i tedeschi avevano dato inizio alla Soluzione finale e, tra le altre cose, intendevano liquidare il ghetto di Varsavia. Qui comincia la storia, straordinaria e terribile, di Jan Karski. La resistenza polacca gli chiese di farsi testimone: venne portato due volte dentro il ghetto di Varsavia affinché ne osservasse l’orrore; in seguito, gli fecero indossare la divisa di una guardia ucraina, corrotta con denaro e sigarette, e lo introdussero nel campo di concentramento di Izbica Lubelska, non lontano da Lublino, nella Polonia orientale, affinché si facesse testimone dell’altro volto dell’orrore. Era l’inizio degli anni Quaranta, nessuno al mondo sapeva davvero come fosse la vita in un ghetto e nessuno sapeva, o credeva, che esistessero i campi di sterminio.

A proposito di ciò che vide, Karski scrisse che il ghetto di Varsavia «era popolato da corpi che si muovevano ancora, spesso in preda a un’agitazione violenta. Erano persone ancora in vita, se si può definirle così. Perché – a parte la pelle, gli occhi e la voce – in quelle figure tremebonde non era rimasto nulla di umano. Ovunque c’erano fame, miseria, lezzo rivoltante di corpi in decomposizione, gemiti lamentosi di bambini in agonia, grida e sussulti di persone che lottavano fino all’ultimo nel disperato tentativo di sopravvivere». 

Per alcuni anni, Karski girò il mondo occidentale per dire di questo orrore, portando come prova il suo sguardo, che si faceva via più spento man mano che, in Inghilterra come in Francia come negli Stati Uniti, capiva che ciò stava raccontando, ciò che aveva visto in Polonia, era indicibile e non veniva creduto. Lo accolse a Washington il presidente Roosevelt, che si mostrò freddo davanti al racconto di una cosa che noi, oggi, diamo per scontata: il fatto che l’eliminazione di ebrei, omosessuali, oppositori politici e altre categorie umane fosse pianificata a tavolino dai nazisti; non gli diede molto peso H.G. Wells, lo scrittore inglese autore della Guerra dei mondi che, allora, era una delle voci più note del mondo occidentale; celebre fu ciò che gli disse Felix Frankfurter, ebreo e giudice della Corte suprema degli Stati uniti: «Non dico che lei stia mentendo… Dico solo che non riesco a credere a quello che dice».Così, disperato e solo, Karski si mise a scrivere la sua autobiografia: era il 1944, si era ormai trasferito negli Stati Uniti e, in pochi mesi, dettò a una dattilografa Storia di uno Stato segreto, un’opera che noi conosciamo, in Italia, con il titolo di La mia testimonianza davanti al mondo

Sylvie Richterová, Il secondo addio

Questa recensione è uscita ieri su TuttoLibri della Stampa

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Quinto romanzo di Sylvie Richterová, scrittrice ceca emigrata nel nostro Paese all’inizio degli anni Settanta e che ha continuato a scrivere nella sua lingua madre, Il secondo addio arriva in libreria grazie a Miraggi edizioni e alla traduzione di Alessandro De Vito – e vi arriva dopo un’attesa di quasi trent’anni, visto che la sua redazione è del 1994. Storia curiosa, ma tutto sommato non insolita, quella dei libri di Richterová, di cui questo Secondo addio può essere preso a emblema: prima opera composta dopo la caduta del regime, il romanzo (se questa definizione ha senso, ma ne parliamo tra poco) poté uscire a Praga, ed era la prima volta che un libro di Richterová arrivava nelle librerie ceche. Ma era stato scritto in Italia, da qualcuno che aveva lasciato la madrepatria da oltre due decenni e che sapeva non vi avrebbe mai fatto ritorno. Fu tradotto in alcune lingue europee ma, curiosamente, non nella nostra, e così sembra che il destino di ciò che Richterová scrive sia, per un motivo o per l’altro, quello di avere difficoltà di diffusione.
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Jurij Devetak/Boris Pahor, Necropoli, Asterios

Questa recensione della graphic novel di Jurij Devetak è uscita su TuttoLibri del 30 settembre

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Boris Pahor è morto nel maggio del 2022, poco prima di compiere 109 anni: non ha fatto dunque in tempo a vedere le bellissime tavole di questo Necropoli – il graphic novel che Jurij Devetak, al suo libro d’esordio, ha pubblicato nell’agosto 2022 in Slovenia e pubblica ora in Italia per Asterios, un coraggioso editore triestino che ha uno splendido sogno nel cassetto: quello di fare una collana di graphic novel basati su grandi opere di autori della sua città, di cui questo Necropoli è il primo titolo. Ha però, Pahor, approvato il progetto di Devetak: è entrato in contatto con le atmosfere e lo stile dell’illustratore, come lui triestino di origini slovene, e ha visto nascere questa nuova versione del suo capolavoro del 1967. 

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Katerina Poladjan, La musica del futuro

Questo pezzo è uscito sul numero di TuttoLibri di oggi

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Chi viveva in Unione sovietica, la mattina dell’11 marzo 1985 ascoltò alla radio, anziché i notiziari consueti, la Marcia funebre di Chopin e si allarmò: qualcosa di molto grave era senza dubbio accaduto nel Paese. In passato, per esempio, c’era stata musica quando i tedeschi avevano rotto il patto Molotov-Ribbentropp ed erano entrati in territorio sovietico; e c’era stata di nuovo una marcia funebre il giorno della morte di Stalin. È così che il Potere era solito comunicare ai cittadini che qualche grande rivolgimento stava avvenendo nel loro mondo: per alcune ore, anziché seguire la dottrina di Partito, i sovietici ascoltavano musica classica e si preparavano a ricevere una notizia che, forse, avrebbe stravolto le loro vite. In questo giorno di marzo di metà anni Ottanta, gli speaker delle radio e delle tv di Stato avrebbero presto dato la notizia che il Segretario del PCUS, Konstantin Černenko, era morto e che gli era succeduto Michail Gorbačëv. Nessuno, allora, poteva prevedere quale enorme stravolgimento si nascondesse dentro questa successione e che l’11 marzo 1985 sarebbe stato un giorno cruciale per il mondo. Ed è proprio in questo giorno che Katerina Poladjan, autrice nata in Russia ma tedesca di adozione e di lingua, ambienta il suo La musica del futuro, romanzo breve e intelligente, di personaggi più che di trama che, oltre all’unità di tempo, sceglie anche quella di luogo: una kommunal’ka, vale a dire un appartamento condiviso da vari nuclei famigliari, ognuno dei quali ha una stanza privata (parola vietatissima, ma mi perdonerete) e cucina e bagno in comune. Siamo in una cittadina anonima della Siberia, ovvero lontani da tutto, e in questa kommunal’ka vivono, si aiutano, litigano, si cercano quasi tutti i personaggi del romanzo: la piccola Kroška, poco amata dalla giovane madre Janka, operaia con sogni di musicista; sua nonna Mar’ja, che lavora in un museo ed è infelice; la bisnonna Varvara, ostetrica poco più che sessantenne; il comunista Matvej, un uomo dolce che lavora in un istituto di fisica, che censisce e cataloga ogni cosa che gli succede e che commetterà un errore, e a cui Poladjan affida alcuni dei passi chiave del romanzo: «Mi stupisco sempre che tanta gente non abbia ancora capito che la felicità non è possibile senza il bene comune» dice a un certo punto, e questa considerazione, a mio modo di vedere, vale per i sovietici degli anni Ottanta e vale per noi, oggi. Poi ci sono gli amici (e amanti) di Janka: Pavel, bisessuale ed etereo, e Andrej, misterioso e affascinante. E il Professore, che forse se ne è volato via da un buco nel soffitto. 

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L’equivoco americano

Sulle Lezioni americane di Italo Calvino

Siccome è il centenario della nascita di Calvino, è capitato, in questi mesi, che qualcuno mi domandasse di scrivere un pezzo su di lui o di ragionare su uno dei suoi motivi. Così, ho cominciato a metter giù alcune cose che penso. Il pezzo che segue era stato pensato in origine per una rivista scolastica con cui collaboro. Visto il tono, che è molto personale, e le opinioni, che sono un po’ “forti” e vanno in controtendenza rispetto a ciò che, normalmente, la scuola pensa di Calvino e il modo in cui lo usa, abbiamo convenuto che è meglio non pubblicarlo. Ma siccome non amo sprecare le cose e ritengo questo lavoro un primo tassello per una riflessione più ampia, lo metto qui, con qualche modifica rispetto alla prima versione ma mantenendo il “voi” a cui mi rivolgo (gli studenti) e certi riferimenti al lavoro da svolgere in classe che, mi pare, rendono un po’ viva quella che altrimenti sarebbe una riflessione da rivista.

Questo pezzo parla di un autore con cui non sono mai riuscito a entrare davvero in contatto: non mi piace – ma questo è in realtà un problema secondario, poiché la storia della letteratura è piena di autori che non amo ma di cui riconosco l’importanza e che, dunque, regolarmente leggo e da cui cerco di trarre dei benefici: penso al polacco Witold Gombrowicz, un genio assoluto la cui lettura mi costa una fatica immane, soprattutto perché ho la sensazione di non capirlo mai del tutto; o a Ivan Turgenev, tra i grandi dell’Ottocento russo, di cui ho letto varie opere senza amarne davvero nessuna, perché in fondo mi annoia: ma essendo lui un maestro di stile e di costruzione dei personaggi, ogni tanto torno sulle sue opere “per vedere come si fa”. L’elenco potrebbe diventare molto lungo e poco interessante sia per me che per voi: ma se dovessi davvero compilarlo, senza dubbio vi entrerebbe Italo Calvino. Non l’ho mai amato, fin dai tempi in cui, in quinta elementare, il maestro ci leggeva i racconti del Marcovaldo che, ancora oggi, è in fondo l’opera calviniana a cui, per questioni affettive, sono più legato. Poi ho letto altre sue cose, anche se non posso dire di conoscerlo approfonditamente: Gli antenati, le Fiabe italiane, che considero il suo lavoro più importante, Le città invisibili, La giornata di uno scrutatore, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Perché leggere i classici. E le Lezioni americane, che ho letto, e poi riletto, e poi riletto, rimanendo ogni volta sbalordito: come è possibile che questo piccolo libro irrisolto e perfino un po’ sciatto sia il mattone su cui è edificato il pensiero letterario italiano degli ultimi quarant’anni? Come è possibile che i suoi cinque argomenti, sacrosanti ma arbitrari e, in fondo, trattati in modo incompleto – Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità – siano diventati dei motivi, delle parole d’ordine per chi si occupa di letteratura? Come è possibile che tutti leggano queste Lezioni e vi ricavino delle poetiche, delle visioni del mondo? Certo, Calvino era un uomo di potere: scrittore famoso e celebrato, lavorò per decenni nella casa editrice italiana più importante, fondò riviste, scoprì talenti, era amico dei francesi e, in più, queste Lezioni furono preparate per le Norton Lectures. In più, le Lezioni sono la sua ultima opera (e pochi, in Italia, resistono alla tentazione, per lo più sciocca, di considerare l’ultima opera di qualcuno come una specie di “testamento”): insomma, hanno tutto per ricevere attenzione. Ma la cosa sbalorditiva è che l’attenzione che hanno ricevuto è per lo più acritica: si tratta sostanzialmente di elogi, peana, dichiarazioni d’amore, come se non si potesse criticare Italo Calvino e come se queste sue Proposte per il nuovo millennio fossero una pietra miliare, qualcosa davanti alla quale non si può fare altro che andare in estasi e prendere appunti.

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Gli Stramer, di Mikołaj Łoziński

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Questo articolo è uscito su TuttoLibri di sabato 8 luglio.

La Polonia, e in particolare la Galizia, vale a dire quella regione, oggi condivisa con l’Ucraina e ormai mitica, che comprende Cracovia e Leopoli, Oświęcim e Drohobyč, è, con la Bucovina, il centro nevralgico dell’Europa, della sua storia e letteratura. Per le sue strade, nell’ultimo secolo e mezzo, sono passate (e, ahimè, passano tuttora) tutte le guerre, i pogrom, le tensioni sociali e politiche che hanno scosso il nostro continente, e vi sono nati o vi hanno vissuto molti dei più grandi scrittori che l’Europa conosca, da Joseph Roth a Appelfeld, da von Rezzori a Bruno Schulz: essi hanno attinto a piene mani dai fatti che la Storia imponeva a quei luoghi, hanno raccontato la vita quotidiana di metropoli e di shtetl, di rabbini e di poveri cristi, di soldati e di madri di guerra e poi, quando il mondo si è ulteriormente incrudelito, hanno raccontato l’Olocausto, le deportazioni e le fosse comuni, ma anche gli orrori della collettivizzazione e delle file per il pane.

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Shpëtim Selmani, Ballata dello scarafaggio

Metto qui il pezzo che ho scritto sabato scorso, 27 maggio, su Tuttolibri, a proposito della Ballata dello scarafaggio, il primo libro di Selmani tradotto in italiano e uscito per Crocetti editore.

FvXma6pXsAArIw1Kosovaro, classe 1986, scrittore, poeta, attore teatrale, Shpëtim Selmani arriva finalmente in Italia per i tipi di Crocetti con questa Ballata dello scarafaggio che non è il suo primo libro (con un altro, L’opuscolo dell’amore, ha vinto qualche anno fa il Premio dell’Unione europea per la letteratura), ma che è, o mi pare, un ottimo viatico per entrare nell’immaginario di questo autore colto e ironico e per dare un’occhiata a una delle letterature balcaniche più interessanti ma meno mappate dal nostro mondo editoriale.
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Sacro potere, in libreria e in edicola

61rFIadbIyLSacro potere. Una sinfonia russa tra Chiesa e Stato è un piccolo libro che esce venerdì prossimo, 14 aprile, per la collana Accademia di Solferino libri. È figlio di un progetto un po’ più grande del semplice libro: sul sito del Corriere, fino a metà maggio solo per gli abbonati, poi per tutti, si potrà infatti ascoltare un podcast, della durata di circa un’ora, che è di fatto una versione breve del libro; in libreria (e in edicola, allegato al quotidiano) si potrà invece acquistare il libro, che è un’opera in cui si parla di poeti che credettero nella Rivoluzione e vi si perdettero, di dittatori atei e sanguinari che, nell’auto che li riporta verso la dača, intonano vecchi canti ortodossi, di guerre e di fratellanze, di autisti che conoscono segreti terribili, di patriarchi e di scrittori che credono che la Russia abbia una missione universale, di reliquie che dormono dentro sottomarini affondati, di statue che diffondono sentimenti dittatoriali, di Ucraina, di come si scrivono le icone, di santi e di folli di Dio, di eremiti, di Eurasia e di Europe che non sono altro che spiagge, o appendici di un mondo da fare, di messianismo, di cristianità vera e di cristianità finta, di bellezze che, per salvare il mondo, pensano di doverlo prima distruggere, di zar e di popi, di chiese che ospitano musei di guerra, di cattedrali che avrebbero potuto diventare templi del comunismo, di scalinate fatte di cingoli, di Bisanzio e di messaggi radio alla popolazione stremata, di letteratura russa, di guerre sante e messe di Pasqua.
Insomma le solite cose, ma non nel solito modo.

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