Il musico, l’esule, il patriarca, la nonna e la letteratura occidentale

In un romanzo che pubblicai alcuni anni fa raccontai, ma come di passaggio, di certe resistenze che Angelo Giuseppe Roncalli, il futuro papa Giovanni XXIII, esibì nei confronti di Igor’ Stravinskij all’epoca in cui era patriarca di Venezia. Mi riferivo in particolare a un episodio del 1956, quando Stravinskij, che intrattenne con la città per tutta la vita una lunga storia d’amore, nel corso delle interminabili contrattazioni per un concerto che avrebbe dovuto tenere nella Basilica di San Marco scrisse al patriarca, per il tramite del direttore artistico del Festival internazionale di musica contemporanea Alessandro Piovesan, che avrebbe volentieri aggiunto al programma pattuito la riarmonizzazione di un mottetto di Carlo Gesualdo. La risposta di Piovesan si fece attendere alcune settimane, ma infine il direttore del festival scrisse, non senza imbarazzo, che il patriarca aveva storto il naso davanti all’ipotesi di rappresentare un napoletano nella cattedrale di Venezia e che, inoltre, Carlo Gesualdo era un uxoricida – dunque non la figura più adatta per essere celebrata in una basilica. Insomma: il patriarca negava a Stravinskij il permesso di dirigere Gesualdo nella sua chiesa. La seconda motivazione di questo diniego, quella dell’uxoricidio, non mi stupì: era bigotta, ma dopotutto aveva senso; la prima, quella razzista, invece mi turbò: possibile che colui che, oggi, è conosciuto come il «papa buono» negasse asilo nella propria chiesa a un meridionale?
Negli anni brevi della mia infanzia, una domenica fui portato a Sotto il Monte, in provincia di Bergamo. Lì, in contrada Brusicco, c’era e c’è ancora la casa natale di papa Roncalli – una dimora contadina di pietra e legno, semplice, chiusa dentro una corte che, oggi, è meta di pellegrinaggi ed è stata musealizzata, mentre allora, negli anni Ottanta, sembrava somigliare ancora a ciò che doveva essere stata quando il piccolo Angelo Giuseppe ci abitava. Nessuno della mia famiglia, a parte la nonna materna, imbevuta di quella religiosità popolare che tanto somiglia alla superstizione, nutriva particolare interesse per la casa o per il cattolicesimo, ma Sotto il Monte è a cinque chilometri da Chignolo d’Isola, il paese natale della nonna, tanto che la narrazione famigliare, da sempre, vuole che lei, che è ancora viva e ha novantasette anni, sia nata «nel paese del papa». Pare, ma non so se sia vero, che la sua famiglia, contadina e umile come quella di Roncalli, per questioni varie di coltivazioni e di commerci, avesse più volte incrociato la famiglia del futuro papa, o forse è quello che per generazioni gli Albergati – questo è il cognome della nonna – si sono raccontati per dare un fondamento e una dignità alla loro famiglia. Per il resto, la narrazione famigliare a proposito del papa non si discostava di molto da quella di uno sceneggiato RAI: era buono, era semplice, parlava agli umili poiché umile era lui stesso, accarezzava i bambini per interposta persona, rappresentava i solidi valori del contado (e chissà in quale momento della nostra Storia i valori del mondo contadino hanno cominciato a diventare sinonimo di bontà e saggezza: io, se penso a una casa contadina, penso a pareti fredde e umide, mobili marrone scuro e piatti sbreccati, scarsa igiene e fango nell’aia, violenza sulle donne e sugli animali, vino rosso, baffi lunghi, bestemmie e messe la domenica – niente insomma che abbia esattamente a che vedere con bontà e saggezza).

All’università, poi, per quella serie infinita e inutile di coincidenze che è la vita di ciascuno di noi, ebbi per un certo periodo, come compagna di corso, una lontana parente di papa Roncalli.

Per quasi quarant’anni non ho pensato a lui, in ogni caso. Ma l’ho ritrovato in questi giorni, studiando a fondo perduto, in un luogo in cui mai avrei pensato di incontrarlo: il quartiere di Galata, a Istanbul. A partire dal 1934, e per una decina d’anni, infatti, Roncalli fu arcivescovo di Mesembria e vicario apostolico di Turchia e Grecia: in questa veste, intercedette con von Papen, ambasciatore del Reich ad Ankara e fervente cattolico, perdonato a Norimberga anche in virtù dell’amicizia con Roncalli e dell’aiuto che gli diede per proteggere certi ebrei che si erano rifugiati in Turchia o che dalla Turchia transitavano nei loro percorsi di fuga. In quegli anni, la Turchia, che fino all’ultimo rimase lontana dalla guerra, aveva avviato un secolare processo di riforme in senso occidentale: una delle tappe di questo processo fu accogliere, dando loro lavoro nelle Università, alcune personalità di spicco della Germania, con lo scopo, da un lato, di fornir loro asilo e, dall’altro, di accelerare il processo di occidentalizzazione grazie al loro contributo. Tra queste figure di esuli per così dire di prima classe ci furono Leo Spitzer e Erich Auerbach.

Esiste una mitologia sulla genesi del più grande libro di critica letteraria del Novecento e dunque di sempre – Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, che Auerbach scrisse negli anni istambulioti. Qualcuno sostiene, e in certe conversazioni lo sostengo anch’io, che egli, che aveva abbandonato la propria biblioteca in Germania, costruì il suo testo e le citazioni lunghe e articolate che esso contiene, esclusivamente basandosi sulla sua memoria prodigiosa, dato che a Istanbul, all’epoca, non esistevano biblioteche di studi europeistici: e questo spiegherebbe, anzitutto, la totale assenza di note a piè di pagina e di bibliografia in fondo al volume. Ma ciò a cui penso spesso, e che mi affascina e mi parla, è un altro aspetto: Auerbach è un ebreo in fuga che, mentre fugge, ricostruisce a memoria il canone di un mondo, quello occidentale, che sta andando in fiamme, e lo ricostruisce in modo personale, a suo modo snello, agile; ancora: mentre le dittature e la guerra cancellano la memoria del mondo, o pretendono di riscriverla, un uomo solo se ne fa carico e, ricordando, ristabilisce certi valori. Se mai la redazione di un libro può essere un atto di eroismo, esso è qui, in questi anni di lavoro sul realismo e l’Occidente.

Ma, naturalmente, le cose non andarono esattamente come le racconta il mito: è vero che Auerbach non ebbe a disposizione edizioni critiche né periodici accademici, ed è vero che non poté richiederli o farli acquisire dall’Üniversitesi, perché le relazioni tra i vari Paesi europei erano interrotte per via della guerra. Epperò scrive, nelle Conclusioni al volume, che è proprio grazie a queste mancanze che osò gettarsi in un’impresa tanto titanica («se avessi potuto fare ricerche, informarmi su tutto quello che è stato scritto intorno a tanti argomenti, forse non mi sarei più indotto a scriverlo»). In ogni caso, una biblioteca ci fu: era nella soffitta del convento domenicano di San Pietro, nel quartiere di Galata; non era pubblica, ma il delegato apostolico, monsignor Roncalli, gli permise di usarla, e io immagino questi due uomini tanto diversi – uno borghese, l’altro contadino, uno ebreo, l’altro cattolico, uno in fuga, l’altro in ascesa – le cui strade per un certo tempo si incontrarono e diedero vita a qualcosa di prodigioso come la nascita di Mimesis. Li immagino incontrarsi, parlare in italiano tra di loro, raccontarsi della guerra e di un progetto gigantesco, straordinario, che parte da Ulisse e Abramo e, attraverso Farinata, Pantagruele e Dulcinea, giunge, forse, a un faro. Chissà che cosa si sono detti, in quel sottotetto, Roncalli e Auerbach.

Dopo i Balcani e la Turchia, Roncalli andò a Parigi e, prima di insediarsi definitivamente a Roma, regnò per alcuni anni su Venezia, dove avrebbe ricevuto una richiesta inaccettabile da parte di Igor’ Stravinskij. Ma ormai erano gli anni Cinquanta, la guerra era finita, e Auerbach da un certo tempo viveva e insegnava filologia negli Stati Uniti. Inviò al patriarca una copia di Mimesis con una dedica che non ho letto, ma che pare fosse lunga e affettuosa; e con lo stesso affetto gli rispose il patriarca.

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