Oggi è uscita su Tuttolibri della Stampa questa recensione di un libro che, senza alcun dubbio, sta nel numero ridotto di opere che considero fondamentali per la mia formazione di lettore e, dunque, di persona: Speranza contro speranza di Nadežda Mandel’štam, che io lessi in un’edizione che portava il titolo di L’epoca e i lupi.
«Degli ottantuno anni della sua esistenza, Nadežda Mandel’štam ne ha vissuti diciannove come moglie e quarantadue come vedova del più grande poeta russo di questo secolo, Osip Mandel’štam. Il resto fu infanzia e adolescenza». È così che comincia lo straordinario ritratto che, a un anno dalla morte, avvenuta nel 1980, l’amico Josif Brodskij dedicava a Nadežda. Può sembrare una descrizione ingenerosa, lapidaria, ma non lo è: è un atto d’amore. Nadežda Mandel’štam aveva vissuto gran parte della sua vita sotto la sorveglianza e la persecuzione del regime sovietico e, negli anni Trenta, aveva perduto l’amore della sua vita, morto in un campo di transito siberiano in circostanze che a lungo rimasero oscure; eppure, Brodskij racconta che, a partire dagli anni Sessanta, cominciò a essere considerata una vedova “fortunata” dalla comunità intellettuale dissidente: Osip veniva finalmente riconosciuto come il più grande poeta di lingua russa del Novecento, e questo anche grazie a lei.
La storia è nota, per lo meno nelle sue trame più visibili: alieno dal regime, Osip Mandel’štam non aveva mai accettato di piegare la sua poesia ai dettami del Cremlino e aveva condotto, grossomodo lungo tutti gli anni Venti, una vita sotterranea; di fatto i Mandel’štam campavano di traduzioni dalle principali lingue europee, che spesso firmavano con uno pseudonimo per passare inosservati. Ma c’è, nell’idea di poesia e dunque di mondo di Mandel’štam, la convinzione che la chiarezza dei versi abbia valore soltanto se racconta la verità. E dunque né lui né Nadežda tacquero mai di fronte ai misfatti dello stalinismo finché, una sera del 1933, Osip recitò davanti ad alcuni amici un epigramma, invero di scarso livello, in cui insultava Stalin definendolo «montanaro del Cremlino» e dicendo ciò che non si poteva dire. Non di soli amici era fatto il parterre di chi lo ascoltò: pochi mesi dopo, i Mandel’štam furono mandati in esilio prima a Čerdyn’, poi a Voronež. Cominciarono cinque anni di sofferenza: continuamente oggetto di visite e perquisizioni da parte della polizia politica, i Mandel’štam capirono presto che Osip non poteva lasciare traccia scritta del proprio pensiero, così presero a recitarsi sottovoce dei versi che Nadežda imparò e pubblicò molti anni dopo la scomparsa del marito, salvandone la memoria e donando alla lingua russa il suo grande poeta.
Di questo, ma non solo, parla Speranza contro speranza, il primo dei due volumi di memorie (il secondo, Speranza abbandonata, sarà nelle librerie italiane in primavera) che Nadežda Mandel’štam scrisse, infine, all’epoca della sua “fortuna”: aveva 65 anni ed era una donna energica, burbera, disillusa; decise di raccontare gli anni della sua vita con Osip, e di farlo con lo stesso nitore e la stessa franchezza con cui lei e il marito si parlavano e si recitavano versi. Il merito di questa pubblicazione è dell’editore Settecolori. Non si tratta di una novità editoriale: i due libri hanno già circolato in Italia – il primo come L’epoca e i lupi, il secondo come Le mie memorie. La scelta dei titoli con la parola “speranza” ricalca le edizioni americane, che giocano sul fatto che Nadežda, in russo, vuol dire proprio “speranza”.
Brodskij sostiene che la spietatezza con cui Nadežda ritrae il mondo sovietico, intellettuale e non, è figlia proprio di quegli esercizi di memoria che lei e il marito si imposero negli anni Trenta: dalla poesia di Osip, e da quella della sua grande amica e sodale Anna Achmatova, Nadežda imparò uno stile e un modo di osservare il mondo. Sentite Brodskij: «I due libri di Madame Mandel’štam equivalgono a un Giudizio universale, sulla terra, per l’epoca dell’autrice e per la letteratura di quell’epoca – un giudizio celebrato tanto più legittimamente in quanto era quella l’epoca che aveva intrapreso l’edificazione del paradiso terrestre». E ancora: «Le sue memorie sono qualcosa di più che una testimonianza sui suoi tempi; sono un modo di vedere la storia alla luce della coscienza e della cultura».
Ma cosa raccontano, dunque, queste memorie? Raccontano gli anni dell’esilio, il recitarsi poesie, il cercar di sopravvivere di una coppia di intellettuali dalla vocazione europea e classicista, il ritorno a Mosca nel 1937, l’arresto di Osip e la sua deportazione e scomparsa; ma raccontano anche di un mondo, la Russia appunto, diventato una grande prigione nel giro di pochi anni, e dunque le delazioni, la trasformazione di un’intera classe intellettuale in una schiatta di servi del potere, la paura; puntano il dito contro funzionari grandi e piccoli e mettono infine in scena, come sottolinea il saggio di Seamus Heaney che correda questa edizione, la lotta tra i valori dell’umanesimo e il sistema utilitaristico, imposto per decreto o per terrore dal Potere.
Esistono persone che portano addosso il marchio dell’epoca che hanno vissuto, e la cui vita è il compendio delle esperienze del popolo a cui appartengono: Nadežda Mandel’štam è una di queste – nella storia dei suoi anni è inciso il secolo russo, con tutto il suo orrore e il suo arbitrio, ma anche con il peso che hanno i sogni infranti: dopotutto, almeno all’inizio, perfino Mandel’štam pensò che nell’Ottobre ci fossero una speranza e una promessa. Non credo esista memoir più straordinario, doloroso e bello di Speranza contro speranza: racconta un mondo in modo schietto, diretto, fa i nomi e i cognomi, rievoca momenti di uno dei decenni più atroci e decisivi del XX secolo, ma lo fa come se tutto ciò fosse una questione privata, una cosa tra marito e moglie – due persone che tengono viva la fiamma della letteratura nonostante su di loro gravi la mano nera della Storia. Se Nadežda non avesse vissuto accanto a Osip o se, per paura o per un destino ancora più beffardo, non avesse mandato a memoria i suoi versi, gran parte dell’opera di Mandel’štam sarebbe andata perduta e, con essa, una delle storie più crudeli ed esemplari del Novecento. Adesso, invece, questa storia è di nuovo qui, grazie a un editore piccolo e coraggioso a cui bisogna dire grazie.