Diario di scrittura del Demone a Beslan

È il pezzo che ho scritto per TuttoLibri della Stampa di sabato 3 aprile

Per molto tempo, mi sono rifiutato di scrivere Il demone a Beslan.

È un romanzo che prova a riscrivere i fatti terribili accaduti a Beslan, un paesone di poco più di 30.000 abitanti perso nell’Ossezia del Nord, uno Stato del Caucaso settentrionale: lì, com’è noto, tra l’uno e il tre settembre del 2004 un commando di 32 terroristi, alcuni dei quali ceceni, fece irruzione nella Scuola n. 1, sequestrando oltre mille persone tra bambini, insegnanti, bidelli e genitori. Per 3 giorni, i sequestratori e le loro vittime convissero nella palestra della scuola, che è il luogo dove il terzo giorno, dopo molte mediazioni andate male, le teste di cuoio russe fecero irruzione contribuendo alla morte di 334 persone, di cui 186 bambini. Questi i fatti, per sommi capi e per come tutti noi li abbiamo seguiti, in diretta, tramite la televisione. Negi anni immediatamente successivi alla strage ho radunato, con la flemma di chi non ha intenzione di lavorare sopra il materiale che accumula, libri, reportages, articoli in varie lingue, fotografie e video di quei tre giorni. Per qualche motivo quei fatti mi attiravano, ma non sapevo perché: del resto, ogni tanto mi capita di preparare dei piccoli dossier su certi fatti o certe figure di cui mi invaghisco, e lo faccio a tempo perso, per creare un archivio personale.

Così è capitato anche per Beslan, e niente lasciava prevedere che ci avrei scritto sopra un romanzo, finché un giorno, si era forse nel 2007 o 2008, durante queste mie blande ricerche trovai la notizia che uno dei terroristi era sopravvissuto; costui aveva un nome, una storia e, soprattutto, una colpa enorme. Fu una specie di illuminazione: capii all’istante che avrei potuto dargli una voce, e soprattutto che avrei potuto far raccontare tutto a lui facendolo ragionare su ciò che aveva commesso – sui torti ma, sorpresa, anche sulle ragioni; scrivendo avrei inoltre dovuto capire se il mio protagonista poteva iniziare o meno un percorso di redenzione. Feci alcune ricerche e, sorprendentemente, scoprii che in quegli anni molte persone avevano scritto sui fatti di Beslan, ma nessuno si era cimentato in un romanzo.

Ebbene, ci avrei provato io.

Il terrorista sopravvissuto si chiamava Nur-Pashi Kulaev e, nel 2006, era stato condannato all’ergastolo: curiosamente, dopo la condanna, non era ricorso in appello e questa, insieme a una foto sbiadita scattata durante un’udienza, era l’unica informazione su di lui che ero riuscito a recuperare. Era troppo poco per affidargli la voce narrante di un romanzo; così presi la decisione di cambiargli nome, trasformandolo in Marat Bazarev. Marat è un nome dal simbolismo fin troppo facile, ma mi attirava il fatto che così si chiamasse anche Safin, forse il più grande talento sprecato del tennis degli ultimi vent’anni; Bazarev, invece, era mutuato da Šamil Basaev – che allora era il capo dei separatisti ceceni – e Bazarov, il protagonista di Padri e figli di Turgenev. Ecco, Marat Bazarev racconta quei tre giorni dal suo punto di vista, ma non solo: dice perché hanno sequestrato la scuola, rivela che cos’è per lui l’odio ma anche che cos’è l’amore, svela i suoi sentimenti verso le vittime, ma racconta anche il suo passato, la sua vita passata tra fughe, paura, morti e privazioni. Insomma fa vedere i fatti di Beslan da un’altra prospettiva, quella che noi consideriamo sbagliata.

Penso che ogni vittima abbia il diritto di sapere perché il suo carnefice la strazia. La cosa che non mi dava pace era il pensiero che molti di quei bambini fossero morti senza sapere davvero perché qualcuno aveva deciso di far loro del male: ecco, Il demone a Beslan è un piccolo tentativo di dar loro una risposta, mettendola direttamente in bocca al colpevole.

Dunque avevo un narratore e avevo una storia. Ma questo non era sufficiente, perché una delle cose che avevo imparato è che di quasi ogni singolo fatto di quei tre giorni esistono almeno due versioni diverse – quella dei separatisti e quella di Mosca – a cui bisogna aggiungere la miriade di interpretazioni, perizie e congetture che esperti, giornalisti di tutto il mondo e superstiti hanno messo in circolazione nel corso degli anni e di cui un romanzo non può non tenere conto: lavorando con l’immaginazione su fatti reali bisogna provare a restituirne tutta la complessità. Così avevo tutti gli elementi, ma non la chiave per cominciare a scrivere. In più, c’era un problema etico – una serie di questioni che avevano cominciato a presentarsi fino a diventare un assillo: più di tutto, mi spaventava l’enormità di quanto era accaduto, perché non mi sentivo in diritto di occuparmi del dolore degli altri, dell’immenso strazio dei sopravvissuti e della memoria delle persone – bambini e non – che avevano perso la vita in quei tre giorni. Continuamente pensavo a come avrei potuto giustificare questa mia invasione al cospetto di una madre di Beslan. Ecco, la figura della madre di Beslan – una madre che è tutte le madri – mi ha ossessionato a lungo: in un certo senso, raccontando la storia di Marat facevo un torto a lei e a suo figlio morto.

Così, di nuovo, non ho scritto.

Poi, un giorno, in un momento del tutto inaspettato, mi è arrivata una voce: in modo sottile, quasi sussurrato, questa voce diceva «Sei tu? Sei stato tu?» – era un bambino, uno di quei bambini, che si rivolgeva a Marat e gli chiedeva perché lo avesse ucciso. Pochi giorni dopo ne è arrivata un’altra, ma questa era quasi incomprensibile: era la voce di un vecchio che, seduto su un marciapiede, sfregandosi indice e pollice chiamava un gatto; il vecchio stava fuori dalla scuola, vedeva tutto quello che succedeva e non lo capiva o lo travisava. Ho capito che queste due voci altre dovevano entrare nel libro e che, anzi, ne sarebbero state l’ossatura in termini di struttura e di etica. Grazie a loro potevo infatti controbilanciare l’orrore del dettato di Marat e potevo creare una dialettica, dando fino a tre versioni dello stesso fatto e restituendo almeno in parte la complessità di quella vicenda terribile.

Ecco, ora potevo scrivere, perché grazie a Petja (il bambino) e Ivan (il vecchio scemo) ero in grado, forse, di trovare una giustificazione, se non a quei fatti, almeno al mio desiderio di raccontarli.

 

 

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