Makanin underground

Non si può, credo, capire gran parte della letteratura russa del XX secolo se non si conosce almeno superficialmente uno dei grandi motivi della vita sociale novecentesca di quel Paese: il problema degli alloggi. Le case comuni, condivise (le kommunalki), gli enormi obščežitija – le residenze, spesso con cucine e addirittura bagni al piano, per lavoratori, studenti, nei casi più nobili per intellettuali e membri del Partito, che raggruppavano persone e famiglie dello stesso ambiente professionale o ceto – attraversano la narrativa russa e sovietica e le danno una forma, un paesaggio dentro cui i personaggi si muovono e su cui gli autori (che spesso, nella realtà, le abitavano) continuamente riflettono. Qualcuno ha addirittura dedicato intere opere a questo motivo e a questi spazi: si veda per esempio il bellissimo La casa sul lungofiume di Jurij Trifonov (1976, in Italia è introvabile da un secolo). Platonov, uno dei quattro-cinque titani del Novecento russo, ci abitò a lungo, anzi: inviso al regime, finì i propri giorni, nel 1951, proprio in un obščežitie dove, senza poter pubblicare, si mantenne lavorando come custode. Ma ancora: tutto Il Maestro e Margherita, capolavoro di cui si parla per via del diavolo, di Pilato e dei manoscritti che non bruciano, ruota intorno al problema degli alloggi. Qual è il primo scandalo di Voland, non appena arriva a Mosca? È questo: egli occupa, con il suo codazzo, un enorme appartamento sulla Sadovaja, cacciando le famiglie che lo condividevano; verso la fine della terza, quarta lettura, poi, si fa una scoperta sensazionale: la storia del Maestro è raccontata, dal manicomio, dal poeta Ponyrëv. Sì, il romanzo ha un narratore interno, nascosto, che diventa di pagina in pagina sempre più presente man mano che si trasforma in un discepolo del Maestro, ma che il lettore incontra fin dal primo capitolo sotto lo pseudonimo di Ivan Bezdomnyj. Che cosa significa Bezdomnyj? Significa, letteralmente, “senza casa”. Chi comprende che la questione della casa è l’epicentro attorno al quale ruotano i pensieri dei cittadini sovietici possiede una chiave per entrare in quella letteratura.

Pochi giorni fa, il primo di novembre, è morto, all’età di ottant’anni, l’ultimo gigante della letteratura russa e sovietica: Vladimir Makanin era malato da tempo, si era ritirato a sud, a Novošachtinsk, a qualche decina di chilometri da Rostov. Matematico, scacchista, esperto di cinematografia, Makanin ha scritto un pugno di opere fondamentali il cui apice è rappresentato da un romanzo mastodontico chiamato Underground. Un eroe del nostro tempo (lo pubblicò in italiano nel 2012 Jaca Book, con traduzione e cura di Sergio Rapetti). Underground, insieme al Maestro, a Vita e destino, a Džann, a Mosca-Petuški, a Živago e a pochi altri è senza dubbio uno dei momenti irripetibili dell’arte romanzesca russa del XX secolo.

Underground appartiene a quel novero di opere scritte a ridosso del cambiamento e che fanno i conti con esso: un altro esempio, altrettanto mastodontico ma meno riuscito, è Vite nuove di Ingo Schulze, dove al centro della vicenda c’è il crollo del Muro, l’unificazione delle Germanie e, in definitiva, quel passaggio epocale da cui noi siamo stati soltanto sfiorati.

Underground è la storia, raccontata in prima persona, di Petrovič, non-scrittore nato tra la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Quaranta (dunque, grossomodo, coetaneo di Makanin, che era del 1937): di lui conosciamo soltanto il patronimico, non il cognome né il nome proprio – questo particolare non è indifferente, ma ci arriviamo tra poco. Perché Petrovič è un non-scrittore? Perché, semplicemente, non scrive: vaga per Mosca portandosi dietro una macchina da scrivere su cui, per tutto il romanzo, che copre circa tre anni durante i quali avviene il crollo dell’Urss, non pigia mai un tasto – ma l’ha fatto! Ha scritto, in passato, numerose opere che, nella cerchia del samizdat moscovita, sono parecchio apprezzate: non hanno però mai visto la luce e non la vedono nemmeno ora che il regime, al quale i suoi libri erano invisi, sta crollando. Vagabondo, mezzo alcolista, bomž (un equivalente slang di bezdomnyj), vitalista, Petrovič definisce se stesso, a più riprese e con orgoglio, aghé (da agenščik, neologismo che viene dritto da anderground – i russi trascrivono letteralmente la pronuncia delle parole straniere), ossia l’ultimo interprete di tutta quella tradizione, letteraria e non, di poeti dispersi, di figli del sottosuolo che vagolano per la Mosca comunista senza un mestiere, senza un vero credo politico, senza la voglia di essere parte di qualcosa e per questo vivono da esclusi, da marginali. Per sfangarla lavora, ma lavora per così dire, come custode in un enorme obščežitie. Non ne è il portiere e nemmeno il guardiano ufficiale: egli vive nei lunghissimi corridoi, nei disimpegni dei piani e nelle zone comuni in attesa che qualcuno degli inquilini – egli li conosce tutti, e sono centinaia – debba, per qualche motivo, partire per un po’ di tempo; allora Petrovič si propone come custode dell’appartamento, vi si installa (a volte custodisce più appartamenti contemporaneamente), vi trascorre, spesso senza ricevere un compenso, delle settimane in cui ha almeno a disposizione un letto e un fornello. La sua è la fama di un uomo tutto sommato onesto: gli abitanti della grande casa comune si fidano di lui per via del fatto che, benché non sia pubblicato, è uno scrittore; soprattutto, a ispirare fiducia negli altri è la sua totale e professata aderenza all’underground: egli non vuole un appartamento per sé, vuole vivere ai margini, continuando ad essere una sorta di clochard filosofo al quale basta poter gravitare attorno all’obščežitie, bevendo vodka quando qualcuno gliela offre, installandosi a casa di vedove o zitelle compiacenti per certi periodi, scroccando piaceri, cure mediche e un pasto caldo ogni volta che la situazione lo consente. Makanin segue Petrovič accompagnando il lettore, dicevo, dentro l’epoca del cambiamento, che nel romanzo ha un volto preciso: quello della privatizzazione degli appartamenti della casa comune. Compaiono affaristi (spesso loschi) che approfittano dell’incertezza dell’epoca El’cin per occupare case, buttare giù muri di appartamenti disabitati e annettersi nuove stanze, oppure acquistare per pochi spiccioli quei metri quadri che sono stati per settant’anni l’autentica ossessione del popolo sovietico. Petrovič si muove dunque dentro questa trasformazione da pubblico a privato, che è priva di regole e spesso di scrupoli, ma in qualche modo l’attraversa rimanendo indenne, perché lui non vuole partecipare. È una sorta di osservatore (naturalmente interessato, perché un letto fa comodo anche a lui), coerente soltanto con la propria filosofia di vita: egli del resto non vuole una casa privata, gli basta quella collettiva.

E qui, su questo aggettivo, è giusto spiegare la seconda parte del titolo: Un eroe del nostro tempo è, naturalmente, il titolo dell’opera in prosa che Michail Lermontov pubblicò tra il 1839 e il 1840. Pochi libri hanno avuto un’eco così duratura nella letteratura russa, e quest’eco è figlia anche del titolo, che è diventato nel corso degli anni una sorta di insegna, come l’Uomo ridicolo di Dostoevskij, i Padri e figli di Turgenev, le Anime morte di Gogol’ e così via – titoli che esprimono in modo tanto eloquente un tipo di essere vivente da diventare paradigmi, perfino modi di dire. Che cos’è, l’eroe del nostro tempo, per Lermontov? Lo dice l’autore stesso, in una frase che Makanin usa come esergo di Underground: «L’eroe… è bensì un ritratto, ma non di un’unica persona: è il ritratto che compendia i difetti di tutta la nostra generazione, nel loro pieno sviluppo». L’eroe di Makanin, dunque, diventa una persona collettiva, l’emblema di un’epoca e di una generazione, quella dell’autore: Petrovič è tutti i cinquantenni artistoidi rifiutati dal loro mondo (dalle Unioni degli scrittori, dai sindacati, dalle fabbriche) e che si sono ritrovati all’improvviso a dover vivere dentro un mondo che non era più quello che conoscevano. È dunque, Underground, un’epopea nazionale, una grandiosa metafora di una condizione e di un Paese colto nel momento in cui tremano le sue fondamenta, ed è anche per questo che Petrovič non possiede un nome e un cognome: perché egli è tutti. Uomo superfluo, ridicolo e tragico insieme, egli è capace di grande empatia con le disgrazie altrui, di esagerato altruismo (esagerato perché, spesso, nel corso del romanzo, egli si priva del niente che ha per andare incontro a qualcuno che poi, magari, gli volterà le spalle), ma ha sviluppato, in questa sua solitudine cagnesca e in questa continua lotta per sopravvivere che è la sua esistenza, anche un io sovrabbondante, che bussa alla sua porta quando percepisce il pericolo o quando, per esempio, gli ultimi rimasugli del vecchio sistema – gli informatori del KGB – lo vengono a importunare. Permeato di vodka, di filosofia (cita spesso Sartre e Heidegger) e di letteratura, Petrovič attraversa le pagine della propria vita come un personaggio di romanzo, e osserva le cose che gli capitano sentendosi ora un uomo del sottosuolo, ora un Puškin incompreso: compie due omicidi, il primo perché si sente umiliato da un caucasico – che “minaccia il suo io”, quell’io che egli non ha mai smarrito anche quando il Partito voleva che tutti si sentissero “noi” –, il secondo nei confronti di un uomo, poeta dell’underground come lui ma vendutosi al Sistema e informatore dei servizi segreti. Uccidendolo, egli vendica tutti gli aghé vittime nel tempo delle sue delazioni: in questo modo, piccolo Mitja Karamazov, Petrovič si fa carico del dolore di tutti, e della loro vendetta. Vive però questi due eventi tragici senza sensi di colpa, e con una scarsa paura di venire acciuffato: dopotutto, questi sono i vantaggi di chi vive fuori dal patto sociale, di qualunque natura esso sia. Così, Petrovič può addirittura permettersi di immaginarsi come un eroe romantico, investendo di un alone mitico i suoi omicidi: non sono assassinii a sangue freddo, ma duelli puškiniani che egli, semplicemente, ha vinto perché allenato da anni di controvita.

Due secoli di letteratura russa riecheggiano dentro le pagine di Underground fin dai titoli dei capitoli: il dostoevskiano Il sosia, dove in scena c‘è Zykov, compagno di bevute e di scorribande letterarie di Petrovič, al quale però il caso ha fornito pubblicazioni (in Russia e all’estero) e fama – anche se Zykov porta una tara, quella di aver dato, una volta, confidenza a quelli del KGB – e che contiene una delle scene più potenti di tutto il romanzo: la riunione di vecchi ruderi del samizdat in un magazzino accanto a una casa editrice cui fanno la posta, in mezzo a vecchie piastrelle per bagni abbandonate che, guarda un po’, una volta parevano impossibili da trovare; Terra vergine, che viene da Turgenev; Scherzo di cane, bulgakoviano; Reparto numero Uno, dal Čechov di Reparto numero Sei; Una giornata di Venedikt Petrovič, da Solženycin. E così via: il testo è tanto infarcito di citazioni, rimandi, calchi di duecento anni di letteratura che, per certi versi, Underground ne può essere considerato un compendio postmoderno. Mi fermo sugli ultimi due titoli, quello čechoviano e Una giornata di Venedikt Petrovič, perché c’è un’altra grande casa comune, nel romanzo, che è speculare all’obščežitie e in cui, in uno dei capitoli più drammatici, Petrovič si troverà a vivere dopo una violentissima crisi di nervi: il manicomio. In esso vive Venedikt, Venja, fratello minore di Petrovič: lui un nome ce l’ha, e ha anche un talento, per la pittura, che il regime una ventina d’anni prima ha deciso di soffocare a colpi di iniezioni e vesti di contenzione. La colpa di Venja non è il talento, ma l’insolenza nei confronti dei funzionari di regime che, lavorando su certa arte “corrotta” e proveniente dall’underground, a un certo punto sono venuti a contatto con lui. Venja, che adesso è quasi un idiota e si muove spento per i corridoi del manicomio come un erede del Maestro, è un puro, qualcuno che, da giovane, pur di non soffocare né svendere la propria arte ha corso il rischio di venire rinchiuso. Non ricorda quasi più chi era (ma tutta la comunità di artisti moscoviti, e perfino qualcuno all’estero, lo venera come un genio), parla pochissimo e a volte a sproposito, ed è lui il vero aghé: quello che non ha accettato nemmeno gli espedienti, ma si è annullato pur di non prendere parte. Si chiama, e non sarà un caso, come quel Venička che, in un romanzo di Venedikt (di nuovo) Erofeev, faceva un viaggio su un trenino suburbano da Mosca a Petuški, dando ricette per prepararsi l’alcol con il profumo, citando tutta la cultura occidentale (anche quella vietata) e finendo per travolgere il lettore dentro un delirio alcolico che era un compendio di tutto quello che era la società sovietica dei primi anni Settanta. Petrovič ama Venja di un amore che è un misto di ammirazione e invidia (per la purezza e per il talento); lo venera come si venera un simbolo prima che un fratello, lo accudisce quando e come può, ma si fa anche bello di fronte a lui.

Comico, tragico, picaresco, antieroico, mitico, metaletterario, tutto: questo è Underground, l’ha scritto vent’anni fa Vladimir Makanin che oggi non c’è più ma che, erede di una tradizione che è così grande che a volte può far paura, non ci si è perduto, anzi, vi ha trovato la sua grande casa comune.

 

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