Questa recensione del nuovo libro di Elvira Mujčić (Crocetti editore) è uscita su Tuttolibri della Stampa di sabato 18 febbraio.
Nel Kosovo immaginato, ma parente stretto di quello reale, in cui è ambientata questa piccola storia, c’è un minuscolo paese, Šumor (tradotto in italiano: “bisbiglio”), in cui abitano 2539 persone, così suddivise: 1362 albanesi, 1177 serbi. Siamo nel 2012 e Miroslav (il cui nome significa “colui che onora la pace”) fa il medico di professione ed è un uomo mite e riflessivo; per qualche ragione che forse non è del tutto chiara nemmeno a lui ha preso una decisione che cambierà presto, e non in meglio, la sua vita: si è candidato alla carica di sindaco del paese. Serbo, ha in mente una rivoluzione gentile, figlia del buon senso: vuole provare a convincere serbi e albanesi a convivere in modo pacifico in un territorio che, al di là degli stravolgimenti della Storia e degli odii etnici, appartiene di fatto a entrambe le popolazioni. Ha perfino ottenuto, senza bisogno di sotterfugi o corruttele, l’appoggio di un centinaio di albanesi che semplicemente si fidano di lui, della sua pacatezza e del progetto politico che porta avanti. Paradossalmente, chi è meno convinto di questa sua idea sono proprio i serbi – e non tanto quelli del paese, ma quelli di Belgrado: non ci si candida alle elezioni indette in un Paese che il proprio governo non riconosce, perché significa legittimarlo, piegarsi a lui e ai voleri di una comunità internazionale percepita come ostile.
Il Miroslav che accoglie i lettori e gli elettori nelle prime pagine del romanzo è un uomo incerto, pieno di dubbi; è appoggiato, ma come da lontano, dalla moglie Nada (“speranza”), dall’amico Zdravko (“colui che è in salute”) e dalla matta Ludmila (“cara alla gente” e sì, tutti i nomi di questo libro cantano), ma ha paura che, da Belgrado, arrivi qualcosa di più che un avvertimento a lasciar perdere. Ha del resto una “colpa” antica nei confronti del suo Paese: durante la guerra degli anni Novanta è emigrato in Germania. Non ha dunque combattuto, non si è votato alla causa e questa è, per chi vive nella sua terra, una macchia indelebile. La sua insicurezza è così forte che, chiuso nella cabina elettorale, non scrive il suo nome sulla scheda. Eppure vince.
Ed è a questo punto che la macchina narrativa si mette in moto davvero. Da Belgrado arriva Nebojša (“colui che non ha paura”), uomo dal passato controverso ma, per così dire, serbo doc, inviato dal governo per osservare Miroslav e, di fatto, diventare il sindaco ombra. Tanto Miroslav è mite e fuori posto, tanto Nebojša è sicuro di sé, spavaldo: è un maschio alfa che arringa alle folle somministrando un nazionalismo spiccio, di pancia, che però funziona. Presto, nella percezione della popolazione serba, Nebojša diventa il vero sindaco, e Miroslav uno zimbello. Qui, il tono del libro cambia, perché a Mujčić, più che rappresentare la questione politica e sociale che dilania quelle terre, interessa indagare i movimenti psicologici dei personaggi: le interessano le storie private, umane, di questi uomini e queste donne che non possono vivere vite normali perché sono piegati dalla Storia, eterodiretti come sono da interessi politici remoti e oscuri, fomentati da proclami generici e violenti e, di fatto, incapaci di liberarsi del peso del passato. Così, seguiamo Miroslav mentre si chiude in sé stesso, diventando una sorta di uomo superfluo che però nutre, nel profondo, sentimenti di odio nei confronti del rivale; o Ludmila, che ricorda ogni data, ogni evento della sua vita e del paese – ed essere condannati a ricordare, in Kosovo, significa non potersi liberare del passato; o gli altri, ciascuno oppresso a suo modo, con voglie di fuga irrealizzabili e la sensazione di vivere una vita decisa da qualcun altro.
La buona condotta non è, o non mi pare, un libro disperato: amaro semmai; racconta in fondo storie di uomini e donne condannati a ripetere, nel piccolo delle loro vite, i movimenti della Storia e a subirli, ma racconta soprattutto questo: mentre subiscono e ripetono, i personaggi sanno, sono perfettamente coscienti delle ragioni (storiche, etniche, politiche e così via) che li portano a vivere in questo modo, sanno perfino, a volte, che molte delle cose in cui credono sono menzogne, e sanno cosa si dovrebbe fare per migliorare la propria condizione almeno un po’. Ma, semplicemente, non lo possono fare: l’inerzia della Storia li spinge all’odio, allo scontro. Funziona così, ha sempre funzionato così e così funzionerà sempre. Da qui, un grigiore, una malinconia che pervade tutti gli ambienti (i bar, gli uffici pubblici, le case, le auto) dove questa storia è ambientata, e il senso di un destino ineluttabile che si può combattere soltanto in un modo: abbandonando tutto e tutti e fuggendo lontano.