La disputa

Circa due anni fa Francesca Bonafini e Caterina Falconi mi contattarono per chiedermi se volevo far parte di un’antologia di “racconti di preghiera, pellegrinaggio, miracolo”, che sarebbe poi uscita per Avagliano con il titolo di La vita invisibile. Benché io non sia credente, mi capita ogni tanto di ricevere richieste di questo tipo, soprattutto dopo che ho pubblicato Il peso del legno – che, tra i libri che ho scritto, è uno di quelli che amo di più.
Avevo appena finito di leggere il libro che Vasilij Rozanov scrisse a proposito della leggenda del Grande Inquisitore e ne ero rimasto affascinato e turbato. Il risultato è questo racconto, che pubblicai con il titolo di Il miracolo, il mistero, l’autorità, ma il cui nome vero, credo, è La disputa. L’ho ripescato in questi giorni per una cosa che devo a fare a teatro, a marzo, e mi sembra buono. Così lo metto qui, senza un motivo particolare, nel giorno dell’anniversario della guerra e di una e-mail terribile in cui Michele Cocchi mi annunciava la malattia che l’avrebbe portato, nel giro di qualche mese, a non esserci più.

Tre grandi atti mistici, da cui dipendono le sorti dell’uomo, fungono da capisaldi della contemplazione religiosa. Sono l’atto della caduta nel peccato, che spiega ciò che è; l’atto della redenzione, che consolida l’uomo in ciò che è; l’atto dell’eterna sanzione per il bene e il male, del supremo trionfo della verità, che attrae l’uomo nel futuro. Le sorti dell’uomo possono essere sovvertite soltanto scuotendo uno di questi capisaldi. E una sola cosa l’uomo non potrà sopportare: la frattura dell’essere e della coscienza con i tre atti mistici, della fede nei quali egli vive: questo pensa mentre si incammina.
E pensa:
Ogni volta che la sua sofferenza è troppo grande, che l’oltraggio è insopportabile, nell’anima si desta il desiderio di non separarsi da questa sofferenza, di non allontanare da sé questo oltraggio. Vi è qualcosa che mitiga la stessa sofferenza nel sapere che essa non è meritata e che non sarà ripagata.
E pensa:
Lo spirito umano è legato strettamente, troppo strettamente, nelle idee, nei concetti e nei sentimenti alla misteriosa conformazione del suo corpo. E le sofferenze degli innocenti, questa indicibile sofferenza di te che sei l’Innocente, è il risarcimento dovuto al Padre per il peccato originale[1]: è una legge di nascita, e tu, nascendo, non gli sfuggisti, dunque anche tu, che sei il Perfetto, peccasti per il solo motivo di essere venuto al mondo. Ed ecco che questa ascesa al monte, queste piaghe e questa corona che ti buca il cranio sono l’atto attraverso cui tu stesso, il Puro, ti purifichi per poterti presentare davanti al Padre senza la vergogna di esser nato.

Mi senti? Lo so che mi senti. Io ti sono stato compagno e amico, e tu mi hai respinto. Hai pensato che avresti potuto fare senza di me, mi hai trattato con arroganza e disprezzo e ora sei solo, solo come non sei mai stato, sei più solo di quando ci incontrammo l’altra volta e tu avevi fame e avevi sete eppure mi ripudiasti. Ma sta scritto: «Alla fine, dopo aver esaurito ogni genere di tentazione, il diavolo si allontanò da lui per un certo tempo»[2]. Ecco che cosa sta scritto, e l’ho letto io così come l’hai letto tu: leggiamo tutti da sempre soltanto quell’unico Libro, e ora sappiamo che quel tempo che tu, nella tua presunzione, avevi forse calcolato in millenni, è finito.
L’altro cadde a terra, ma come all’improvviso: nonostante il suo corpo fosse ricoperto di piaghe, che nella notte erano rimaste aperte e s’erano infettate e bruciavano, e nonostante le gambe tremassero come tremano durante una crisi, egli era fino ad allora riuscito ad avanzare, un passo alla volta, sotto il peso del patibulum. Ma a un certo punto, in mezzo alla folla che seguiva lui e i suoi compagni di pena, tra le armature opache dei centurioni aveva scorto, o così gli era sembrato, delle caviglie gonfie come di chi soffre di una forma acuta di gotta, e nel frastornamento di quegli attimi aveva pensato che tutti, a Gerusalemme, perfino i due ladroni che salivano al colle insieme a lui, indossavano quel giorno sandali o calzari – tutti tranne lui, poiché glieli avevano bruciati il giorno prima mentre lo flagellavano, e colui i cui piedi deformi gli erano entrati confusamente nel campo visivo. Così si era distratto, le gambe non l’avevano sorretto, ed era caduto. In ginocchio sulla terra, volle sputare un grumo di sangue, ma non riuscì a trovare le forze necessarie: dal labbro inferiore cominciò a colare una bava rossastra mentre il condannato che lo seguiva, e che era incatenato assieme a lui, gli rovinava sulla schiena. Gli sembrò di aver urlato per il dolore ma nessuno, lungo la via, sentì il suo lamento. Un soldato lo insultò nella sua lingua; si aspettava un colpo di frusta, ma il colpo non venne: sentì due mani che afferravano il patibulum e lo sollevavano, costringendolo a rialzarsi nel rumore del ferro. Gli ci volle un momento per riaversi dal dolore, e cercò quei piedi mostruosi nella calca, ma non li trovò. Lo stesso soldato che lo aveva sollevato lo strattonò brutalmente e lo costrinse a ripartire mentre, alle sue spalle, il respiro dell’altro condannato riprese a battergli sulla schiena. Ma appena ricominciò ad avanzare rivide quelle caviglie deformi, che non sembravano poter sostenere il peso di un corpo eppure lo facevano; sentì una voce, una voce che aveva già ascoltato in passato, e che ora parlava di certi capisaldi, di cui però non colse il significato. Si guardò attorno, di nuovo senza individuare l’uomo dai piedi gonfi e nudi, ma gli sembrò di scorgere uno strano sorriso – un sorriso che aveva già visto – sul volto di una bambina, poi sul volto di una vecchia, infine nella crepa di un muro.
Chi sei?, pensò. Ma l’altro non gli rispose. Gli parlava ora della sofferenza umana, quella sofferenza che aveva visto e amato molte volte ma che solo ora, mentre la provava sul proprio corpo, gli sembrava di riuscire a capire. Sei tu?, domandò ancora. Si chiese se ora che capiva il dolore umano era davvero in grado di amarlo, di convivere con esso per il resto del tempo che gli rimaneva su questa Terra. Scacciò subito questo pensiero, che gli parve sacrilego.
Nel frattempo, la strada aveva cominciato a salire. Il colle non era alto, e confusamente intravide, sulla sommità verso cui si dirigevano, le forme lunghe dei pali su cui lui e i suoi due compagni sarebbero stati crocifissi entro pochi minuti. Gli sembrarono tre artigli ed ebbe paura, e la paura gli portò un giramento di testa: cadde di nuovo, e di nuovo il ladro che lo seguiva gli fu addosso, schiacciandolo sotto il peso del suo corpo e del suo patibulum. Egli ora era a terra, il volto contro i sassi. Probabilmente, nella caduta, si era rotto il naso, poiché un dolore feroce ora gli tormentava il volto, e dagli occhi sgorgavano lacrime senza che stesse piangendo. I sandali dei centurioni gli si fecero vicini, e di nuovo egli sentì che lo sollevavano per il patibulum: gli sembrò che gli strappassero le carni, e questa volta urlò, e l’urlo fu sentito da chi gli stava intorno, e fu perfino visto, poiché urlando egli espettorò un po’ della sabbia e dalla ghiaia che aveva inghiottito cadendo. Bevve del sangue nuovo, il sangue che gli colava dal naso, e cadde in ginocchio, stremato. I centurioni bloccarono qualcuno che si era staccato all’improvviso dalla folla con una pietra in mano; poi uno dei soldati indicò un giovane e gli impose di avvicinarsi. Gli dissero qualcosa che quello non capì, allora lo afferrarono e lo spinsero verso il corpo del condannato e il legno del patibulum. Il condannato, colui che aveva detto di essere il Messia, sentì di nuovo il rumore del ferro: gli allentavano le catene dai polsi. Gli levarono il patibolo e lo diedero al giovane. Con un colpo di frusta al terreno, i soldati impartirono l’ordine di ricominciare a salire: il Messia e colui che adesso portava il suo pezzo di croce camminavano l’uno di fianco all’altro, entrambi persi in pensieri troppo lugubri per dedicarsi al compagno. Il condannato si toccò il naso tumefatto e cercò di pulirsi le labbra dalla sabbia, ma fece l’errore di usare la lingua, che si riempì di minuscole scaglie che gli seccarono la saliva. Guardava ora in terra, poiché non aveva le forze né il coraggio di sollevare il capo e contemplare gli artigli sopra il monte.
All’improvviso, e per un solo istante, ebbe la visione dei piedi di chi gli portava la croce: erano nudi, e gonfi come di gotta. Trasalì, lo stomaco si restrinse per via di uno spasimo, e guardò in volto colui che tutti conosciamo come Simone di Cirene: era lui, era il cireneo, non l’individuo gottoso che gli aveva lanciato dei pensieri sacrileghi poco prima. Tornò a guardare in terra, e i piedi del cireneo gli parvero ora normali, grossi e sporchi come di chi ha lavorato la terra, e infilati in un paio di sandali di cuoio grezzo. Ma ormai era inquieto, continuamente guardava ora i piedi ora il profilo di chi lo aiutava e vi cercava dei segnali.
Ecco, sentì che una voce diceva, Non devi avere paura: avevi bisogno di aiuto e io te lo sto dando. Porto la croce per te. (I piedi e le caviglie del cireneo erano ancora normali, egli ne seguiva i movimenti così come si segue un idolo). Sei stanco, ti hanno fatto del male, diceva ancora la voce, I tuoi amici ti hanno lasciato solo e il padre tuo da molto tempo non manda alcun segnale.
Vattene!, urlò, Che cosa vuoi da me? Ma di nuovo non produsse alcun suono, poiché la lingua era ormai incollata al palato.
Tu mi hai sempre scacciato e maledetto, ma sbagli: io ci sono stato ogni volta che ne hai avuto bisogno. Riconoscilo. Nel deserto, non c’era tuo padre: c’ero io, che risvegliai in te il desiderio; nel Getsemani, non c’erano gli amici tuoi: c’ero io, che attraverso la paura ti resi vicino agli uomini come mai lo eri stato; nel pretorio, non c’era la tua famiglia: c’ero io, che nella compassione di un prefetto ti feci provare l’amore degli uomini. Desiderio, paura, amore: non esistono sentimenti più umani. E tu? Tu volevi farti uomo, ma conoscevi le passioni terrene solo in astratto. Ora lei hai provate sulla pelle, e grazie a me.
Taci. Ti ho scacciato una volta, e ti scaccerò ogni volta e per sempre, pensò colui che aveva detto di essere il Messia.
Tacerò, se vuoi. Ma arriveremo assieme al Cranio, perché tu hai bisogno di me: senza queste braccia che ho prese a prestito questa croce non arriverebbe fin sulla collina e niente di ciò che hai fatto su questa terra troverebbe compimento.
Lasciala cadere. La solleverò.
Se la lasciassi, fustigherebbero questo corpo che non è mio e lo sostituirebbero con un altro. È così che vuoi finire i tuoi anni terreni? Facendo fustigare un innocente?
Il condannato rallentò il passo. La prenderò, pensò, Sono in grado di portare questo legno fino al Cranio.
Non lo è il tuo corpo, disse colui che parlava attraverso i pensieri del cireneo. Il tuo corpo ti ha abbandonato: è un grumo di sangue e piaghe purulente. Ascoltami: io ti sto aiutando. Il cireneo si voltò a guardarlo, e sul suo volto comparve per un istante lo stesso sorriso che era apparso poco prima sul volto della bambina, su quello della vecchia e nella forma di una crepa nel muro.
Io ti maledico!, pensò il Messia, ma il cireneo ormai pareva ridere apertamente di lui, poiché egli è quel tipo di avversario che sa di aver vinto non appena si accetta di dialogare con lui.
Alcuni di loro capiranno che eri davvero un dio, disse ancora l’avversario, ma lo capiranno quando ormai il tuo corpo terreno sarà morto. Non crederanno nella tua resurrezione, poiché vedranno soltanto una tomba vuota e nessun segno tangibile del tuo ritorno: così perseguiteranno coloro che gireranno il mondo in nome tuo. In nome tuo si combatteranno guerre, si strapperanno i figli dai ventri delle madri, e ci saranno folli che ti canteranno bruciando sopra cataste di sterpi. È questo che vuoi? È questo il mondo per cui sei disceso, per cui hai predicato e per il quale ora subisci il supplizio?
Il condannato non rispose: gli pareva che le caviglie del cireneo, a ogni passo, si gonfiassero e si sgonfiassero, si gonfiassero e si sgonfiassero, e in questo gioco di carni enfiate v’era qualcosa di ipnotico che metteva sonno.
Parla!, urlò allora colui che portava la croce. Ma colui che aveva detto di essere il Messia taceva. Così l’avversario si fece minaccioso: Farò in modo che essi sappiano che io ti ho accompagnato per tutta la tua vita terrena: sapranno che è attraverso di me che ti sei sentito intimamente vicino a loro e li hai compresi a fondo, poiché solo attraverso di me si può davvero amare gli uomini e provare empatia nei loro confronti; sapranno che ti ho tentato e che mi hai scacciato, ma che nonostante questa sconfitta non mi sono rassegnato e ho finito per accompagnarti alla croce, in modo che loro capissero chi tu eri veramente; sapranno che ti ho guidato e consigliato, e allora saranno anche miei, ameranno me quanto amano te, sarò per loro un nemico e un amico a un tempo, anzi, sarò il Nemico e l’Amico, e sarà attraverso di me che molti di loro giungeranno a te. Si inginocchieranno davanti a me, riconoscendomi; porterò loro le tue reliquie e le farò adorare, ma la mano che le tenderà loro non sarà la tua: sarà la mia. Così li avrò. Oh, non tutti, si capisce: ma me ne bastano molti.
Il Messia ebbe un nuovo sbocco di sangue, che gli pulì la bocca dalla sabbia che ancora la impastava, e cadde a terra, inciampando in alcune pietre. Ma non aveva pesi sulle spalle, e camminava di lato rispetto agli altri: così il ladro che lo seguiva, questa volta, non gli rovinò addosso e non lo fece urlare di dolore. Uscì dalla folla una giovane donna, che passava di lì portando una cesta con dei panni che aveva appena lavato a una fonte. Si inginocchiò davanti a lui, cercò velocemente un lenzuolo bianco nella cesta, lo cavò, e prima che il Messia potesse anche solo sollevare il capo, glielo posò sul volto. Egli vi respirò dentro, inebriandosi per il fresco odore di bucato e succhiando un po’ dell’acqua che lo impregnava. Poi, prima che i centurioni lo dividessero dalla sua benefattrice, egli, come colpito da un’idea improvvisa, si ritrasse bruscamente e guardò la donna dritto nel volto: aveva gli occhi neri e fondi che hanno certe donne di Gerusalemme e lo guardò per un istante soltanto, mentre ripiegava il lenzuolo su cui, gli parve, l’immagine di sabbia e sangue del suo viso era rimasta impressa; ma egli vide in quello sguardo ciò che non voleva vedere e, quando i soldati lo afferrarono e lo costrinsero ad alzarsi con uno strattone, gli sembrò che la donna sorridesse un sorriso che aveva già visto.
Ora ho la tua immagine, gli disse infatti il cireneo poco dopo; in tutto quel tempo, del resto molto breve, si era fermato ad attenderlo e aveva osservato la scena come se già la conoscesse: Ho una reliquia. Oggetti come quel lenzuolo diverranno sacri, la gente ucciderà pur di poterli adorare, poiché saranno i segni tangibili del tuo passaggio su questa Terra. Si affideranno ad essi come dei fanciulli: in essi riverbererà il mistero della fede in te, ma sarò io a metterli a loro disposizione. Mi scuso per aver approfittato di questo momento e della tua debolezza: del resto, siamo soci, e converrai che, nel corso dei secoli, ti ho cercato molte volte, e molte volte ti ho proposto ciò che ora mi prendo con l’inganno. Ma ecco il luogo del Cranio, disse infine, Siamo arrivati.
Posò il patibulum dove i soldati gli indicarono: sotto il palo centrale.
Saranno tormentati da questo momento, disse ancora, L’idea dei chiodi, del dolore, dei buchi nelle mani e nei piedi sarà per loro insopportabile. I bambini si impressioneranno guardando le innumerevoli rappresentazioni del tuo corpo appeso e martoriato, e saranno soprattutto le mani, le tue mani, a turbare il loro sonno, forse per via di quei rivoli di sangue che i pittori dipingeranno attorno ai buchi, oppure per via di certi spasimi che gli artisti più capaci sapranno imprimere alla forma delle tue dita. Eppure non sanno che il tormento maggiore tu l’hai già passato, e che non sono i chiodi il vero supplizio: i chiodi non sono nulla.
Fecero sdraiare il Messia appoggiandogli le spalle al patibulum e gli allargarono le braccia per fissarle con le corde. Egli aprì per un istante gli occhi e cercò Simone, ma non lo vide: i soldati lo avevano cacciato indietro e l’avversario lo aveva liberato poiché non gli serviva più. Quando piantarono il primo chiodo, egli sentì le ossa che si spezzavano dentro il palmo e le vene che si laceravano: sollevò la testa per urlare e vide il cireneo che si allontanava a grandi passi dal luogo del supplizio; sembrava terrorizzato e ansioso di scomparire. Ora l’avversario doveva essere dentro il corpo di qualcun altro, ma egli per un attimo perse i sensi quando arrivò il dolore del secondo chiodo. Si risvegliò mentre lo issavano sul palo: fu un senso di vertigine e un vuoto improvviso che lo riscosse.
Ai suoi piedi, adesso, stavano la madre e le altre Marie; con loro vi era colui che avrebbe scritto che tutto, in quel momento, si compiva, ma egli in quei primi istanti non vi badò, poiché era frastornato e solo e poiché una voce, adesso, gli stava dicendo qualcosa che all’inizio non distinse ma che a poco a poco, nell’intontimento e nella pena, si fece chiaro:
Manca l’ultimo momento, l’autorità. Mi prenderò anche quella, stanne certo.
Il crocifisso, ora, poteva vedere ai suoi piedi la città celeste e dominava dall’alto gli uomini e le donne che erano saliti con lui fino al Cranio.
Questo è l’altare che hai sempre voluto, disse ancora la voce. Proveniva, ora ne era certo, dal corpo di un centurione che camminava non lontano da sua madre; impugnava una lunga lancia e sudava sotto l’armatura, resa incandescente dal sole del primo pomeriggio.
Disse: Questo è il tuo altare e il tuo scettro: l’immagine che tutti custodiranno nei loro portafogli e che tutti appenderanno ai muri delle loro case. Il loro dio messo a morire sulla croce: ecco la più assurda e la più inconcepibile di tutte le cose, e per questo la più grande e la più degna di fede. Ma vedi, portando la croce al tuo posto, io ho dato loro una figura concreta da seguire: loro crederanno in te, ma si inginocchieranno davanti a coloro che recano quel simbolo, e accanto a costoro ci sarò io; ho poi la tua reliquia, l’effigie del tuo volto: loro si affideranno a chi la esporrà e nel suo mistero rovesceranno ogni loro desiderio e ogni loro speranza; ora devo trovare il modo per dar loro un regno, disse infine, e al Messia sembrò che, mentre gli parlava, il soldato lucidasse con molta cura la punta della lancia. Cadeva però spesso in deliquio e non riusciva a seguire il discorso che il centurione gli faceva: le articolazioni delle spalle, ormai slogate, gli procuravano dolori che si spandevano verso l’alto, fino alla cervicale e, verso il basso, fino alle anche e al sacro; ma più di ogni cosa egli penava, ora, perché sentiva i polmoni schiacciati contro lo sterno: non poteva più fare forza per darsi sollievo, perché gli addominali erano prolassati e le braccia non lo tenevano. Così soffocava, ma piano, con lentezza, e questo soffocamento gli si presentava sotto forma di dolore, di angoscia e di perdite temporanee di coscienza, da cui rinveniva all’improvviso per via delle atroci fitte che sentiva nel petto e nelle spalle. Chiese dell’acqua, ma non sapeva se l’avesse chiesto per davvero o se l’avesse solo pensato. Gli portarono alle labbra un panno intriso d’aceto (ma dove l’avevano preso, l’aceto?) ed egli pensò che fosse l’ultimo inganno architettato dal suo avversario. Invece, ecco, egli era là, lontano, a lucidare la punta della lancia, e gli parve perfino che guardasse il soldato dell’aceto con disprezzo.
Ti avevo offerto i regni della terra e li rifiutasti, com’è giusto che sia da parte tua, disse allora il centurione; ora te li rioffro, sotto forma di questa armatura e di questa lancia. Perdonami se non ho simboli migliori da offrirti, ma del resto anche tu hai usato il pane, l’acqua, il vino – cose semplici e comprensibili a tutti, come semplice e comprensibile a tutti è ciò che rappresenta l’armatura che indosso. Capiscimi: devo poter definire che cosa è il bene e cosa è il male, e lo devo definire al di là di ogni ragionevole dubbio. Ma, se tu sei il bene e io sono il male, perché io ho pietà di te e ti aiuto a morire? Molti sapranno porre questa domanda, ma quasi nessuno saprà darvi una risposta. Nessuno capirà che la riposta non c’è e che, se mai c’è stata, soltanto io ho saputo darla.
Così disse, mentre il capo di colui che si era detto il Messia penzolava come se fosse morto. Ti lascio andare, disse infine il centurione, Ho fatto tutto ciò che dovevo.
E quasi senza prendere la mira scagliò la lancia nel costato del crocifisso. Gli parve che quel corpo martoriato avesse un sussulto, ma poi si disse che, forse, il torace aveva tremato per via della violenza del colpo. La loro disputa, del resto, in quel momento non era già più di questo mondo.

 

 

 

 

 

 

[1] I pensieri con cui si apre questo racconto sono presi, a volte letteralmente, a volte con alcune modifiche ed espansioni, dal saggio di Vasilij Rozanov La leggenda del Grande Inquisitore (1894), edito in Italia da Marietti 1820.

[2] Luca, 4,13

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