La seconda vita di un romanzo

Dopo dieci anni, Il demone a Beslan è di nuovo in libreria, ma con una veste nuova: è cambiato l’editore, che ora è Bollati Boringhieri, e ho corretto alcuni errori e imprecisioni che, dopo la prima edizione del 2011, mi sono accorto di aver commesso; ho modificato certe grafie, rendendole più filologiche, ho cancellato un paragrafo dove c’era un errore di punto di vista e ho tradotto in italiano certe cose, ma poche, che erano in lingua. 
Per il resto, Il demone a Beslan è rimasto ciò che era, come è giusto che sia. 

Quando lo scrissi, ero una persona molto diversa da quella che sono ora; soprattutto, scrivevo in modo diverso – avevo un altro passo e altri modelli. Così, quando alcuni mesi fa ho ripreso il testo in mano per rileggerlo in vista della pubblicazione, avevo un po’ di paura, temevo soprattutto di trovarci molte ingenuità: ebbene, ne ho trovata qualcuna, ma ho trovato anche una vitalità e una forza di cui avevo solo qualche reminiscenza. Il Demone è per me un romanzo-matrice, il punto da cui il mio percorso è cominciato, è l’inizio e il centro nevralgico di un’idea di letteratura che ho cercato poi di sviluppare in altri libri: ma tutto è, appunto, cominciato da lì. 

È un libro che mi ha accompagnato per molti anni: il fatto da cui prende forma, come sapete, è avvenuto nel 2004, ma non ho pensato subito di scriverci un libro; per molto tempo, ho letto gli articoli e i reportages che trovavo sui “fatti di Beslan” e ho guardato le foto e i filmati della palestra, dei bambini in fuga, degli abbracci, dei corpi martoriati – ma senza l’idea precisa di lavorarci sopra. Mi spaventava l’enormità di quanto era accaduto, soprattutto perché non mi sentivo in diritto di occuparmi del dolore degli altri, dell’immenso strazio dei sopravvissuti e della memoria delle persone – bambini e non – che avevano perso la vita in quei tre giorni. 

Finché un giorno, poteva essere il 2007 o il 2008, trovai la notizia che uno dei terroristi era sopravvissuto; costui aveva un nome, una storia e, soprattutto, una colpa enorme. Per qualche motivo che non so spiegare, capii all’istante che avrei dovuto dargli una voce, avrei dovuto far raccontare tutto a lui facendolo ragionare su ciò che aveva commesso – sui torti ma, sorpresa, anche sulle ragioni; scrivendo avrei inoltre dovuto capire se il mio protagonista poteva iniziare o meno un percorso di redenzione. Per fargli fare tutto questo, gli ho cambiato nome: è diventato Marat Bazarev.

Così, Il demone a Beslan racconta una storia terribile, e la fa raccontare dal punto di vista sbagliato: quello del carnefice. Penso che ogni vittima abbia il diritto di sapere perché il suo carnefice la strazia. La cosa che non mi dava pace era il pensiero che molti di quei bambini fossero morti senza sapere davvero perché qualcuno aveva deciso di far loro del male: ecco, Il demone a Beslan è un piccolo tentativo di dar loro una risposta.

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