Le forme del mondo

Un’idea della complessità

Lo scorso inverno Fabiano Massimi ha retto, presso la Scuola Holden, una Cattedra Spencer che ha dedicato a Italo Calvino, in particolare alle sue Lezioni americane. L’idea di Massimi, piuttosto stimolante, è stata di affidare le cinque parole chiave delle Lezioni (Rapidità, Leggerezza, Molteplicità, Esattezza, Visibilità) a cinque autori contemporanei e chiedere loro un’attualizzazione, quando non una riformulazione, dei concetti calviniani. A me è stata affidata la Molteplicità. Il saggio che segue, che dividerò in parti poiché è piuttosto lungo e che pubblicherò a puntate in queste settimane, è il risultato della mia riflessione.

«Il tema dei miei libri è, per citare Nabokov, lo stile».
Danilo Kiš

Unknown

Molte volte, in questi anni, ho ripreso in mano un piccolo libro di Elias Canetti, Le voci di Marrakech, perché la mia memoria si ostina a presentarmi una certa scena che per me ha un significato particolare, qualcosa che ha a che vedere con il mio lavoro, con lo sguardo che vorrei saper gettare sul mondo, ma soprattutto con la bellezza e con la malìa della letteratura: in questa scena, che nella mia memoria non dura più di una pagina, Canetti rievoca una sera in cui, attraversando la Djema-al-Fna, ovvero la piazza del mercato, il luogo dove ha inizio la medina e il cui nome può essere tradotto come Assemblea dei morti, che in fondo è il vero nome della letteratura, la sua attenzione viene catturata da un nugolo di persone raccolte in un canto. Canetti si avvicina e, benché sia l’unico occidentale, all’inizio non viene notato da nessuno: le persone sono disposte in cerchio e al centro di questo cerchio c’è un vecchio, un cantastorie che sta raccontando qualcosa. Benché Canetti non capisca nulla del racconto, poiché non conosce il berbero, viene rapito dalla cantilena del vecchio e per alcuni minuti sembra perdere perfino coscienza di dove si trovi, del perché sia lì. Ma, all’improvviso, proprio mentre Canetti è rapito da qualcosa che non sa, il racconto si interrompe in modo brusco. Immediatamente, come azionati da un meccanismo, gli spettatori cominciano a frugarsi nelle tasche alla ricerca di qualche dirham, che rovesciano in un cappello che un ragazzino, l’aiutante del cantastorie, fa girare tra la piccola folla. Una volta che il cappello è pieno di monete, il ragazzino e il vecchio si scambiano un’occhiata, e il cantastorie ricomincia il suo racconto – presumibilmente dal punto in cui l’aveva interrotto. 

Ci sono due possibili spiegazioni di questo fatto: la prima, per così dire quella pratica, è che il vecchio racconta storie per denaro – e dunque interrompe il suo racconto, di cui non sapremo mai il contenuto, nel suo punto nevralgico, nel cuore, in modo che gli spettatori, rapiti dalla sua cantilena e pieni di curiosità per il proseguo della storia, siano spinti a pagare; la seconda, quella che mi piace di più e che sento più vicina, è che il vecchio si ferma perché, attraverso il ragazzino e il suo cappello, chiede il permesso di continuare. Il denaro diventa un modo attraverso cui gli spettatori dicono Grazie cantastorie, la tua storia è bella, la tua voce è convincente, il tuo modo di raccontare è intrigante – ti diamo il permesso di continuare a darci piacere. Sembrano due spiegazioni molto simili, sovrapponibili, e invece sono una l’opposto dell’altra: nella prima, a desiderare che il racconto prosegua sono gli spettatori; nella seconda, è il vecchio.

Elias_Canetti_2

Questa piccola storia, che, come dicevo, sono convinto di aver letto in Canetti, nelle Voci di Marrakech non c’è, o per lo meno non la trovo. Forse l’ho immaginata, ma io non sono bravo con l’immaginazione. Forse l’ho letta altrove, in Walter Benjamin per esempio. Forse ho messo insieme tanti elementi di tanti libri diversi. Non ho idea: ma è da quando ho cominciato a scrivere, più di vent’anni fa, che giro con questa piccola parabola in una tasca della memoria, e penso ad essa ogni volta che prendo in mano la penna e, implicitamente, chiedo a quegli sconosciuti che mi leggeranno il permesso di ricavarmi un piccolo canto nel loro immaginario.

Questa storia, che forse è falsa, me ne fa venire in mente un’altra, che è stata scritta davvero: da qualche parte, Borges dice che la sua preferita tra le favole delle Mille e una notte è la seicentoduesima, «magica fra tutte» perché in essa Shahrazād racconta a re Shahriyār una storia in cui una certa Shahrazād racconta una storia a un certo re Shahriyār, e in questa storia di secondo o forse già di terzo livello c’è una Shahrazād che è davanti a un re che si chiama Shahriyār e al quale racconta una storia… solo che, ecco, nella seicentoduesima storia delle Mille e una notte non si racconta niente di tutto ciò: Borges se l’è inventato, ha creato un apocrifo, ha mandato tutti i suoi lettori sullo scaffale dove tengono questo libro prodigioso, li ha costretti a scorrere l’indice, a tuffarsi dentro una storia che non leggevano da anni (o che forse non avevano letto mai) affinché scoprissero che tutto ciò che quella sera avevano letto e fatto era stato previsto da un vecchio argentino cieco e beffardo, a cui interessava ribaltare il mondo, giocare per così dire con i livelli della realtà e inventare nuove forme fingendo di commentare vecchi testi:

Dicono gli arabi che nessuno può
leggere fino alla fine il Libro delle Notti.
Le Notti sono il tempo, che non dorme.

Ora, perché vi dico questo? Perché comincio un intervento a proposito della Molteplicità raccontando una storia in cui chi parla (o scrive) chiede il permesso e rievocandone un’altra che inventa una storia che non c’è? Ma soprattutto: perché comincio confessando che uno di questi episodi – il primo – forse non esiste, o per lo meno non è stato raccontato nel modo in cui io lo ricordo e il secondo, che invece esiste, è consapevolmente sbagliato? Perché qualcosa nello scritto di Canetti, evidentemente, in un dato momento della mia vita di lettore mi è entrato sottopelle, mi ha dato da pensare e mi ha portato a costruire un mondo, o meglio, a immaginare una possibile versione apocrifa di una storia che non era effettivamente stata scritta – che è esattamente quello che fa, e ci fa fare, il racconto beffardo di Borges. Di questo vorrei parlarvi da qui in avanti. Spero di riuscire a farlo.

[Continua…]

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