Le forme del mondo – 6

Nell’Arte del romanzo, Kundera sostiene che il romanzo per come oggi lo conosciamo nacque nel momento in cui Don Chisciotte uscì di casa e non fu più in grado di riconoscere il mondo: egli pensava che le persone e le cose si comportassero in un certo modo, reagissero a certi stimoli o motivi, e invece le persone e le cose funzionavano altrimenti. I primi romanzi europei sono viaggi attraverso il mondo, un mondo che sembra illimitato e che dunque va esplorato, conosciuto e restituito: dai tempi dell’Odissea, il cronotopo del viaggio è il primo motivo per cui raccontiamo storie. Ma Kundera va oltre, e fa una considerazione che mi dà da pensare. Dice:

“Non è Don Chisciotte stesso che, dopo un viaggio di tre secoli, torna al villaggio travestito da agrimensore? Lui che un tempo era partito per scegliere le sue avventure, adesso, in questo villaggio sovrastato dal castello, non ha più scelta, l’avventura gli viene ordinata.”

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All’inizio del XVII secolo, un personaggio di romanzo esce di casa per scoprire il mondo e subito non vi si riconosce: è costretto a inventarsi amori, e nemici, e avventure; ma è comunque lui a decidere dove andare e cosa fare, è così libero che può perfino decidere di impazzire. Tre secoli più tardi, un altro personaggio di romanzo (il quale, ora lo so, è diretto discendente del primo benché abbia perso perfino il nome) esce di casa e arriva, senza un motivo particolare, in un luogo che deve misurare, vale a dire conoscere, e che invece non conoscerà, gli si rivelerà inaccessibile, perfino ostile nella sua indifferenza. In questo passaggio di consegne c’è molto della relazione tra l’uomo e il mondo, o della sua modificazione. Oggi, un personaggio di romanzo che esce di casa forse non sa nemmeno dove andare, oppure è qualcuno che a casa ci torna, come fanno Irimiás e Petrina, per poi scoprire che non c’è niente da conoscere – che semplicemente non c’è niente. Kundera era convinto che il compito di un romanzo, posto che il romanzo ne abbia uno, non fosse quello di indagare la realtà, ma l’esistenza. C’è una differenza molto profonda tra questi due aspetti, che ovviamente sono intrecciati l’uno con l’altro, e questa differenza consiste nel fatto che l’esistenza non è “ciò che è avvenuto o avviene”, ma è il campo delle possibilità umane, di tutto ciò che l’uomo può divenire, di tutto ciò di cui è capace. Se questa considerazione è vera, e io credo che lo sia, il romanzo diventa una specie di indagine, un’inchiesta su chi siamo; il mondo pone delle domande, l’esistenza degli uomini pone delle domande, i romanzi esistono per svilupparle. Attenzione: non per trovare delle risposte, ma per trovare dei modi belli, significativi di domandare. Parlando di autori seminali come Kafka e Musil, ma anche di Broch e Hašek, che sono sostanzialmente coloro su cui si è formato, Kundera dice che essi «scoprono “quello che solo un romanzo può scoprire”», ovvero mostrano come, nelle condizioni dei «paradossi terminali», tutte le categorie esistenziali cambino improvvisamente di senso. E dunque che cos’è l’avventura se la libertà di azione di un K. è totalmente illusoria? Che cos’è l’avvenire se gli intellettuali dell’Uomo senza qualità non hanno il benché minimo sospetto della guerra? Che cos’è il delitto se lo Huguenau di Broch non solo non ha rimorsi, ma addirittura dimentica il delitto che ha commesso?

Nelle sue Lezioni, Nabokov ha scritto che la letteratura non è nata il giorno in cui un ragazzino corse inseguito da un lupo e si mise a gridare «Al lupo, al lupo»: è nata il giorno in cui un ragazzino, correndo, gridò «Al lupo, al lupo», ma il lupo non c’era. Il fatto che nessuno abbia creduto al ragazzino, perché era uno che mentiva, e che la volta che il lupo ci fu davvero il poverino venne divorato non ha importanza: ciò che conta, dice Nabokov, «è che tra il lupo della prateria e il lupo della bugia esiste un intermediario scintillante: quell’intermediario, quel prisma, è l’arte della letteratura». La letteratura non racconta la verità, ma raccontando delle menzogne, o meglio, proponendo delle riscritture apocrife del mondo, essa ci dice qualcosa sull’esistenza, ci fa conoscere uno spicchio di questo nostro mondo: ma perché tutto ciò sia efficace e abbia senso, deve farlo ogni volta trovando una voce e fondando uno stile.

Vladimir Makanin è l’ultimo, tra gli autori che conosco, che ha provato a riscrivere il mondo facendo un’enciclopedia. Vorrei parlare di lui perché pochi, in Italia, lo conoscono, e con lui mi piacerebbe chiudere questa piccola e incompleta rassegna delle forme possibili. Don Chisciotte esce di casa, va nel mondo e non lo riconosce; K. esce di casa per misurare il mondo e ne viene sopraffatto; Gaustìn, protagonista di Cronorifugio, costruisce case del tempo in cui ciascuno può acquattarsi e riconoscersi, se mai questo è possibile; i folli e i dementi di Krasznahorkai vivono sperduti nel luogo dove sono nati e dove dovrebbero invece riconoscersi; Petrovič, protagonista di Underground di Vladimir Makanin, è invece un personaggio totale, qualcuno che riassume tutta la letteratura possibile e che vive custodendo una grande casa comune. Ma non si può, credo, capire gran parte della letteratura russa del XX secolo se non si conosce almeno superficialmente uno dei grandi motivi della vita sociale novecentesca di quel Paese: il problema degli alloggi. Le case comuni, condivise (le kommunalki), gli enormi obščagi– le residenze, spesso con cucine e addirittura bagni al piano, per lavoratori, studenti, nei casi più nobili per intellettuali e membri del Partito, che raggruppavano persone e famiglie dello stesso ambiente professionale o ceto – attraversano la narrativa russa e sovietica e le danno una forma, un paesaggio dentro cui i personaggi si muovono e su cui gli autori (che spesso, nella realtà, le abitavano) continuamente riflettono. Per fare un esempio, tutto Il Maestro e Margherita, capolavoro di cui si parla per via del diavolo, di Pilato e dei manoscritti che non bruciano, ruota intorno al problema degli alloggi. Qual è il primo scandalo di Voland, non appena arriva a Mosca? È questo: egli occupa, con il suo codazzo, un enorme appartamento sulla Sadovaja, cacciando le famiglie che lo condividevano; verso la fine della terza, quarta lettura, poi, si fa una scoperta sensazionale: la storia del Maestro è raccontata, dal manicomio, dal poeta Ponyrëv. Sì, il romanzo ha un narratore interno, nascosto, che diventa di pagina in pagina sempre più presente man mano che si trasforma in un discepolo del Maestro, ma che il lettore incontra fin dal primo capitolo sotto lo pseudonimo di Ivan Bezdomnyj. E Bezdomnyj significa, letteralmente, “senza casa”. Chi comprende che la questione della casa è l’epicentro attorno al quale ruotano i pensieri dei cittadini sovietici possiede una chiave per entrare in quella letteratura e in un romanzo mastodontico chiamato Underground. Un eroe del nostro tempo,pubblicato nel 2008 da Vladimir Makanin. Considero Underground, insieme al Maestro, a Vita e destino, a Džann, e a Mosca-Petuški uno dei momenti irripetibili dell’arte romanzesca russa del XX secolo.

Underground appartiene a quel novero di opere scritte a ridosso del cambiamento e che fanno i conti con esso: un altro esempio, altrettanto mastodontico ma meno riuscito, è Vite nuove di Ingo Schulze, dove al centro della vicenda c’è il crollo del Muro, l’unificazione delle Germanie e, in definitiva, quel passaggio epocale da cui noi siamo stati soltanto sfiorati. Underground è la storia, raccontata in prima persona, di Petrovič, non-scrittore nato tra la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Quaranta (dunque, grossomodo, coetaneo di Makanin, che era del 1937): di lui conosciamo soltanto il patronimico, non il cognome né il nome proprio – questo particolare non è indifferente, ma ci arriviamo tra poco. Perché Petrovič è un non-scrittore? Perché, semplicemente, non scrive: vaga per Mosca portandosi dietro una macchina da scrivere su cui, per tutto il romanzo, che copre grossomodo il biennio 1991-1992, ossia il tempo in cui avviene il crollo dell’Urss, non pigia mai un tasto – ma l’ha fatto! Ha scritto, in passato, numerose opere che, nella cerchia del samizdat moscovita, sono parecchio apprezzate: non hanno però mai visto ufficialmente la luce e non la vedono nemmeno ora che il regime, al quale i suoi libri erano invisi, sta crollando. Vagabondo, mezzo alcolista, bomž (un equivalente slang di bezdomnyj), vitalista, Petrovič definisce sé stesso, a più riprese e con orgoglio, aghé (da agenščik, neologismo che viene dritto da anderground – i russi trascrivono letteralmente la pronuncia delle parole straniere), ossia l’ultimo interprete di tutta quella tradizione, letteraria e non, di poeti dispersi, di figli del sottosuolo che vagolano per la Mosca comunista senza avere un mestiere, né un vero credo politico, né tantomeno la voglia di essere parte di qualcosa e per questo vivono da esclusi, da marginali. Per sfangarla lavora, ma lavora per così dire, come custode in un’enorme obščaga. Non ne è il portiere e nemmeno il guardiano ufficiale: egli vive nei lunghissimi corridoi, nei disimpegni dei piani e nelle zone comuni in attesa che qualcuno degli inquilini – egli li conosce tutti, e sono centinaia – debba, per qualche motivo, partire per un po’ di tempo; allora Petrovič si propone come custode dell’appartamento, vi si installa (a volte custodisce più appartamenti contemporaneamente), vi trascorre, spesso senza ricevere un compenso, delle settimane in cui ha almeno a disposizione un letto e un fornello. La sua è la fama di un uomo tutto sommato onesto: gli abitanti della grande casa comune si fidano di lui per via del fatto che, benché non sia pubblicato, è uno scrittore; soprattutto, a ispirare fiducia negli altri è la sua totale e professata aderenza all’underground: egli non vuole un appartamento per sé, vuole vivere ai margini, continuando ad essere una sorta di clochard filosofo al quale basta poter gravitare attorno all’obščaga, bevendo vodka quando qualcuno gliela offre, installandosi a casa di vedove o zitelle compiacenti per certi periodi, scroccando piaceri, cure mediche e un pasto caldo ogni volta che la situazione lo consente. Makanin segue Petrovič accompagnando il lettore, dicevo, dentro l’epoca del cambiamento, che nel romanzo ha un volto preciso: quello della privatizzazione degli appartamenti della casa comune. Compaiono affaristi (spesso loschi) che approfittano dell’incertezza dell’epoca El’cin per occupare case, buttare giù muri di appartamenti disabitati e annettersi nuove stanze, oppure acquistare per pochi spiccioli quei metri quadri che sono stati per settant’anni l’autentica ossessione del popolo sovietico. (E mi sembra perfino superfluo mostrare come gli appartamenti di questa casa comune, che è mastodontica come il romanzo che la racconta, le porte che di continuo si aprono e si chiudono, e soprattutto questi interminabili corridoi, che continuamente si intersecano e aprono a nuovi incontri e a nuove possibilità, siano l’immagine, o meglio, si facciano immagine concreta della forma che Makanin ha deciso di dare al suo romanzo – un organismo interminabile, pieno di scatole cinesi, di storie e sottostorie, di passato e di presente, di imprevisti e cambiamenti radicali).

Petrovič, dunque, si muove dunque dentro questa trasformazione da pubblico a privato, che è priva di regole e spesso di scrupoli, ma in qualche modo l’attraversa rimanendo indenne, perché lui non vuole partecipare. È una sorta di osservatore (naturalmente interessato, perché un letto fa comodo anche a lui), coerente soltanto con la propria filosofia di vita: egli, del resto, non vuole una casa privata, gli basta quella collettiva, che è un microcosmo della Russia. E qui, è giusto spiegare la seconda parte del titolo: Un eroe del nostro tempo è, naturalmente, il titolo dell’opera in prosa che Michail Lermontov pubblicò tra il 1839 e il 1840. Pochi libri hanno avuto un’eco così duratura nella letteratura russa, e quest’eco è figlia anche del titolo, che è diventato nel corso degli anni una sorta di insegna, come l’Uomo ridicolo di Dostoevskij, i Padri e figli di Turgenev, le Anime morte di Gogol’ e così via – titoli che esprimono in modo tanto eloquente un tipo di essere vivente da diventare paradigmi, perfino modi di dire. Che cos’è, l’eroe del nostro tempo, per Lermontov? Lo dice l’autore stesso, in una frase che Makanin usa come esergo di Underground: «L’eroe… è bensì un ritratto, ma non di un’unica persona: è il ritratto che compendia i difetti di tutta la nostra generazione, nel loro pieno sviluppo». L’eroe di Makanin, dunque, diventa una persona collettiva, l’emblema di un’epoca e di una generazione, quella dell’autore: Petrovič è tutti i cinquantenni artistoidi rifiutati dal loro mondo (dalle Unioni degli scrittori, dai sindacati, dalle fabbriche) e che si sono ritrovati all’improvviso a dover vivere dentro un mondo che non era più quello che conoscevano. È dunque, Underground, un’epopea nazionale, una grandiosa metafora di una condizione e di un Paese colto nel momento in cui tremano le sue fondamenta, ed è anche per questo che Petrovič non possiede un nome e un cognome: perché egli è tutti. Uomo superfluo, ridicolo e tragico insieme, egli è capace di grande empatia con le disgrazie altrui, di esagerato altruismo (esagerato perché, spesso, nel corso del romanzo, egli si priva del niente che ha per andare incontro a qualcuno che poi, magari, gli volterà le spalle), ma ha sviluppato, in questa sua solitudine cagnesca e in questa continua lotta per sopravvivere che è la sua esistenza, anche un io sovrabbondante, che bussa alla sua porta quando percepisce il pericolo o quando, per esempio, gli ultimi rimasugli del vecchio sistema – gli informatori del vecchio KGB – lo vengono a importunare. Permeato di vodka, di filosofia (cita spesso Sartre e Heidegger) e di letteratura, Petrovič attraversa le pagine della propria vita come un personaggio di romanzo (cosa che di fatto è: non dimentichiamolo), e osserva le cose che gli capitano sentendosi ora un uomo del sottosuolo, ora un Puškin incompreso: compie due omicidi, il primo perché si sente umiliato da un caucasico – che “minaccia il suo io”, quell’io che egli non ha mai smarrito anche quando il Partito voleva che tutti si sentissero “noi” –, il secondo nei confronti di un uomo, poeta dell’underground come lui ma vendutosi al Sistema e informatore dei servizi segreti. Uccidendolo, egli vendica tutti gli aghé vittime nel tempo delle sue delazioni: in questo modo, piccolo Mitja Karamazov, Petrovič si fa carico del dolore di tutti, e della loro vendetta. Come lo Huguenau di Broch, però, vive questi due eventi tragici senza sensi di colpa, e con una scarsa paura di venire acciuffato: dopotutto, questi sono i vantaggi di chi vive fuori dal patto sociale, di qualunque natura esso sia. Così, Petrovič può addirittura permettersi di immaginarsi come un eroe romantico, investendo di un alone mitico i suoi omicidi: non sono assassinii a sangue freddo, ma duelli puškiniani che egli, semplicemente, ha vinto perché allenato da anni di controvita.

Underground è stato scritto con l’intento preciso e dichiarato di costruire, entro i corridoi della grande casa e attraverso i pensieri e gli incontri del protagonista, «un’enciclopedia della vita e della cultura russa». È, si può dire, un altro romanzo «la cui eroina è la letteratura russa», e perciò, come Il dono, appartiene al novero di quelle opere che difficilmente possono essere comprese appieno da coloro che conoscono le cose russe solo superficialmente. Due secoli di letteratura russa riecheggiano dentro le sue pagine, e lo fanno fin dai titoli dei capitoli: il dostoevskiano Il sosia, dove in scena c‘è Zykov, compagno di bevute e di scorribande letterarie di Petrovič, al quale però il caso ha fornito pubblicazioni (in Russia e all’estero) e fama – anche se Zykov porta una tara, quella di aver dato, una volta, confidenza a quelli del KGB – e che contiene una delle scene più potenti di tutto il romanzo: la riunione di vecchi ruderi del samizdat in un magazzino accanto a una casa editrice cui fanno la posta, in mezzo a vecchie piastrelle per bagni abbandonate e che, guarda un po’, una volta parevano impossibili da trovare; Terra vergine, che viene da Turgenev; Scherzo di cane, bulgakoviano; Reparto numero Uno, dal Čechov di Reparto numero Sei; Una giornata di Venedikt Petrovič, da Solženycin. E così via: il testo è tanto infarcito di citazioni, rimandi, calchi di duecento anni di letteratura che, per certi versi, Underground ne può essere considerato un compendio postmoderno. Questa mia ultima frase, però, non rende giustizia al romanzo, che non è semplicemente quell’enciclopedia di citazioni che chi mi legge o ascolta potrebbe immaginare: è piuttosto un mastodontico esercizio di riscrittura di due secoli di letteratura. Non conosco sistemi letterari oltre quello russo che, nel corso della loro storia, hanno così insistentemente rievocato e riproposto temi e motivi della propria catena letteraria: tra i grandi romanzi russi del Novecento non esiste opera che non richiami, sotto forma di citazione o omaggio, qualche libro del passato: come se noi italiani, ogni volta che prendiamo la penna, citassimo in maniera più o meno esplicita Manzoni, o Alfieri, o Ariosto, e dialogassimo costantemente con loro, e costruissimo le nostre opere in relazione al modo in cui sono immaginati e scritti il Convivio, il Saul o le Satire. Questo fanno i russi, questo, più che la grandezza di certe loro opere, rende la loro letteratura qualcosa di unico al mondo. Ma se Underground si limitasse a riprodurre questi meccanismi, ci troveremmo semplicemente di fronte a un immenso catalogo, un’opera senza dubbio meritevole d’attenzione, ma in fondo non troppo diversa da altre cose scritte da altri. Invece Underground è un gigantesco apocrifo letterario, un esercizio costante di riscrittura di temi e motivi letterari russi e sovietici, come se ogni capitolo fosse una riproposizione, in piccolo, di un romanzo che ha contribuito a costruire quell’immensa cattedrale che è la letteratura in lingua russa e, al contempo, a fare di Makanin lo scrittore che è. Questo ovviamente non ha a che vedere con la storia che ogni capitolo racconta in senso stretto, quanto, piuttosto, con un’atmosfera, un ambiente, un oggetto culturale che dentro il testo vagano e gli danno forma. Underground, che è stato immaginato e composto negli anni Zero, rievoca però il biennio successivo alla caduta dell’Unione, un fatto che può essere letto come la fine di un mondo e di una cultura: è dunque possibile, secondo un’ottica enciclopedica, farne un bilancio, riconvocandone i padri e riproponendone, sotto una nuova forma, i motivi.

Per fare un esempio, scelgo, tra quelli che ho citato poco sopra, gli ultimi due titoli, il čechoviano Reparto numero Uno e Una giornata di Venedikt Petrovič, perché c’è un’altra grande casa comune, nel romanzo, che è speculare all’obščaga e in cui, in uno dei capitoli più drammatici, Petrovič si troverà a vivere dopo una violentissima crisi di nervi: il manicomio. In esso vive Venedikt, Venja, fratello minore del protagonista: lui un nome ce l’ha, e ha anche un talento, per la pittura, che il regime una ventina d’anni prima ha deciso di soffocare a colpi di iniezioni e vesti di contenzione. La colpa di Venja non è il talento, ma l’insolenza nei confronti dei funzionari di regime che, lavorando su certa arte “corrotta” e proveniente dall’underground, a un certo punto sono venuti a contatto con lui. Venja, che adesso è quasi un idiota e si muove spento per i corridoi del manicomio come un erede del Maestro (giacché niente, in Underground, accade per caso o per il semplice gusto di raccontare: tutto accade perché è già accaduto nella letteratura, ed è questa la grande conquista di Makanin, il suo grande ed enciclopedico contributo alla conoscenza del mondo); Venja, dicevo, è un puro, qualcuno che, da giovane, pur di non soffocare né svendere la propria arte ha corso il rischio di venire rinchiuso. Non ricorda quasi più chi era (ma tutta la comunità di artisti moscoviti, e perfino qualcuno all’estero, lo venera come un genio), parla pochissimo e a volte a sproposito, ed è lui il vero aghé: quello che non ha accettato nemmeno gli espedienti, ma si è annullato pur di non prendere parte allo stupro dell’arte compiuto dal regime. Si chiama, e non sarà un caso, come quel Venička che, in un romanzo di Venedikt (di nuovo) Erofeev, faceva un viaggio su un trenino suburbano da Mosca a Petuški, dando ricette per prepararsi l’alcol con il profumo, chiamando a raccolta, tramite centinaia di citazioni ubriache, tutta la cultura occidentale (anche quella vietata) e finendo per travolgere il lettore dentro un delirio alcolico che era un compendio di tutto quello che era la società sovietica dei primi anni Settanta. Petrovič ama Venja di un amore che è un misto di ammirazione e invidia (per la purezza e per il talento); lo venera come si venera un simbolo prima che un fratello, lo accudisce quando e come può, ma si fa anche bello di fronte a lui.

“Si è voltato… Venedikt Petrovič si è voltato, per vedermi da lontano. Voleva che anch’io lo vedessi. Ha respinto i due infermieri. E ha detto loro, con calma, rivolgendosi a entrambi come per chiarire le cose una volta per tutte: «Non spingete, vado da solo!» (Al tempo stesso liberando me, fraternamente, dall’insopportabile peso del rinnegato. Era voluto tornare lui…). E si è perfino raddrizzato, fiero, anche solo per quell’istante: il nostro genio russo, pesto, umiliato, strattonato, sporco di merda, e ciononostante: non spingere, ci arriverò, da solo!”

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[Continua…]

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