Le forme del mondo – 5

Questo modo di dar forma al discorso letterario è relativamente comune a molti autori contemporanei che provengono dall’Europa centrale e orientale, la cui produzione letteraria è a mio parere tornata ai livelli di un secolo fa e produce da ormai un numero significativo di anni la letteratura più interessante del nostro continente; le opere che si scrivono oggi in Polonia, Ucraina, Ungheria e in un’area balcanica generalmente intesa e che comprende i territori dell’ex Jugoslavia e della Bulgaria, raccontano le vicende traumatiche e storte dei Paesi dell’ex blocco sovietico: i lettori di Georgi Gospodinov si troveranno a loro agio, per fare dei nomi, con la forma e lo stile di Olga Tokarczuk, di Aleksandar Hemon, di Daša Drndić, di Svjatljana Aleksievič. Beninteso, si tratta di autori molto diversi tra loro e le cui pagine sono perfettamente riconoscibili e distinguibili da quelle degli altri: eppure, ci sono alcuni motivi, di stile e di forma, che sembrano andare dall’uno verso l’altro, e nell’altro trovare una nuova lingua e una modalità espressiva leggermente diversa, eppure parente.

Nei Vagabondi di Olga Tokarczuk, opera fatta di storie piccole e grandi, vere e immaginarie, come quella di Philip Verheyen, anatomista olandese tardosecentesco, scopritore del tendine d’Achille anche grazie agli studi condotti in seguito a un’amputazione di una gamba, subita per evitare una cancrena; o come quella dei popoli nomadi slavi, o di certi nostri contemporanei europei i quali, come in un film americano, vivono tra aeroporti e quelli che una volta venivano chiamati non-luoghi. Tutti si muovono, nel libro di Tokarczuk, tutti superano confini reali, tra Paesi diversi, o personali, esplorando il proprio corpo e il dolore, tutti sono irrequieti, preparano valigie, cacciano, cercano qualcosa e a volte la trovano: ma non è questo il punto; il punto è che attraverso questa narrazione, che è totalmente priva di un centro e in cui il lettore si trova a volte spaesato come spaesati sono certi viaggiatori, l’importanza dei personaggi, delle singole storie e, soprattutto, dell’unità e dell’uniformità narrativa, si perde, e si perdono le voci narranti: ciò che conta è il movimento; il protagonista dei Vagabondi è il cambio di stato, sia esso inteso come stato in luogo o come stato d’animo. E perché un libro sul cambiamento, sul movimento e sulla compenetrazione di mondi funzioni e abbia senso, ebbene, deve continuamente cambiare, muoversi, fluttuare: da qui viene, mi sembra, questa sua struttura mobile, inafferrabile, per certi versi simile a quella di Gospodinov eppure differente, perché priva di un certo narrativo (essendo il centro dei Vagabondi non un fatto, come la clinica del tempo del romanzo bulgaro, ma, a mio modo di vedere, un concetto):

STORIE DI VIAGGIO

Faccio bene a raccontare delle storie? Non farei meglio a bloccare la mente con una graffetta, tirare le redini ed esprimermi non tramite racconti ma con la semplicità di una lezione in cui, frase dopo frase, si chiarisce ogni singolo pensiero e altri vengono accodati nei paragrafi successivi? Potrei usare citazioni e note a piè di pagina; per punti o per capitoli potrei elencare le implicazioni di cosa intendo, verificherei un’ipotesi menzionata in precedenza e alla fine potrei sfoggiare le mie argomentazioni, come il lenzuolo dopo la prima notte di matrimonio, in visione al pubblico. Sarei padrona del mio testo, potrei ottenere il pagamento dei diritti d’autore.
E così sto accettando il ruolo dell’ostetrica o della moglie di un giardiniere con il compito, al massimo, di seminare per poi combattere inutilmente contro le erbacce.
I racconti hanno una specie di inerzia propria, che non si può mai controllare fino in fondo. Richiedono gente come me, insicura, indecisa, facile da sviare. Ingenua.

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È una pagina che Tokarczuk inserisce grossomodo a metà del testo, interrompendo il racconto su Verheyen e prima di un altro frammento in cui riporta un sogno di volo, in cui l’autrice del sogno, mentre sogna, calcola l’altezza a cui si trova facendo delle proporzioni, che naturalmente il testo riporta:

A sta a B come
C sta a D
——————-
A x D=C x B

E poi, poco oltre:

1:30=10.000:D
——————–
D= = 300.000m
              1

Georgi Gospodinov sostiene che questa frammentarietà, questa impossibilità di narrare in modo per così dire fluido e armonico che accomuna molti autori dell’Europa centrale (senza dubbio tra i più interessanti), sia dovuta a un fattore molto semplice: «Veniamo da epoche “monumentali”» dice «odiamo le strutture monumentali». Dopo anni di narrazioni dominanti, monolitiche, di punti di vista univoci sul mondo, la risposta che dà la letteratura che viene dai Paesi dell’ex Blocco è la frammentazione, come se queste strutture rapsodiche, apparentemente disorientanti, fossero la forma migliore che il pensiero umano sta trovando per reagire al crollo del proprio mondo, o almeno per poterlo raccontare: in questi pezzi brevi, montati in modo apparentemente casuale, si salvano le cose piccole, deperibili, lampi di vita e di memoria, ma tutto è disordinato, poiché in questi romanzi, immaginati e scritti a due-tre decenni di distanza dal crollo del Muro (e questi venti-trent’anni sono, fisiologicamente, il tempo minimo di cui la letteratura ha bisogno per elaborare un’epoca), va in scena, in ultima analisi, la ricerca di un senso al cospetto di una condizione – privata, politica e sociale – che un senso fatica a trovarlo.

Ma la letteratura non ha delle leggi, e gli scrittori non sono legiferatori. Chi si trova nella mia condizione, di osservatore per così dire interessato, ha l’ingrato compito di cavare regole generali e norme da quello che vede e sente. Ma a volte, e per fortuna, la letteratura va altrove.

Ascoltate:

Una mattina di fine ottobre, non molto prima che sul terreno screpolato e salmastro a ovest dello stabilimento cominciassero a cadere le prime gocce delle interminabili e inesorabili piogge autunnali (il fetido mare di fango che si sarebbe creato avrebbe poi reso impraticabili i sentieri campestri e quindi irraggiungibile la città fino all’arrivo delle prime gelate), Futaki venne svegliato dai rintocchi di una campana. La cappella più vicina si trovava a quattro chilometri a sudovest, nel vecchio campo Hochmeiss, ma si trattava di un rudere solitario, che non solo non aveva la campana, ma nemmeno il campanile, crollato durante la guerra, e la città era troppo lontana perché un qualsiasi suono potesse giungere da laggiù. E comunque: quei suoni squillanti e trionfanti, più che far pensare a rintocchi lontani di campane, sembravano provenire da molto vicino (“Forse dal mulino…”), come se fossero trasportati dal vento. Si appoggiò con i gomiti sul cuscino per poter guardare fuori da quel minuscolo buco che era la finestra della cucina, ma oltre il vetro mezzo appannato lo stabilimento ancora immerso nell’azzurro tenue dell’alba e avvolto dagli squilli di campane che piano piano si diradavano era ancora completamente immobile e silenzioso: delle case che si trovavano dall’altro lato, ben distanziate tra di loro, solo una aveva la finestra fiocamente illuminata dietro la tenda, quella del dottore, e solo perché chi ci abitava era ormai da anni incapace di addormentarsi al buio. Futaki trattenne il fiato perché non voleva perdersi nemmeno uno di quegli squilli che fluttuavano alla deriva nel disperdersi dello stormo di campane, e anche perché voleva riuscire a capire come stessero veramente le cose (“Sicuramente stai ancora dormendo, Futaki…”), ma per poterlo fare aveva bisogno di cogliere ogni singolo suono, anche il più isolato e remoto. Con i suoi leggendari passi felpati zoppicò sulle gelide mattonelle della cucina fino alla finestra (“Ma non c’è nessuno sveglio? Nessuno le sente? Nessun altro?”), aprì la finestra e si sporse fuori. Fu investito da un’aria umida e pungente, e per un attimo dovette chiudere gli occhi, ma era inutile tendere l’orecchio in quel silenzio reso ancor più profondo dal canto del gallo, dal lontano abbaiare dei cani e dal sibilo del vento tagliente e spietato, alzatosi appena pochi minuti prima; non riusciva a sentire più nulla, a parte i sordi battiti del proprio cuore, come se tutto fosse stato solo un gioco di spettri in quel sogno del dormiveglia (“…come se qualcuno volesse spaventarmi”).

È la prima pagina di un capolavoro ungherese, Satantango di László Krasznahorkai, ed è anche la penultima, poiché il romanzo inizia e finisce con le stesse, identiche pagine, in un moto circolare che, in un certo senso, mima il ballo a cui fa riferimento fin dal titolo. Futaki si sveglia, è a casa, una baracca sperduta dentro un villaggio sperduto nella puszta ungherese, e sente un suono, quello delle campane, che non si dovrebbe sentire. Crede di riconoscervi qualcosa di astratto, metafisico: «la melodia perduta della speranza», qualcosa come un segno, che aiuti i personaggi del romanzo, figure disperate e sporche, a uscire dall’impasse dentro cui sono caduti in un momento di cui non sanno. Essi per lo più bevono, si lasciano andare a dissolutezze – dostoevskianamente godendo della propria vergogna e della disperazione in cui si macerano ma, a differenza dell’uomo del sottosuolo, allo stesso tempo sperando, in modo ancorché confuso e ubriaco, che arrivi qualcuno che porti una salvezza. Se questo qualcuno sia un Cristo o un ciarlatano non lo sanno, e in fondo non desiderano saperlo. Questo Cristo storto però arriva ed è in realtà due persone, Irimiás e Petrina, due compaesani spariti da tempo e che tutti credevano morti, ma che invece, come in un racconto di Platonov, tornano al paese dopo essere usciti di prigione: Irimiás in particolare, si finge il nuovo messia, e viene creduto, ma più per disperazione che per fede. In realtà lui e Petrina, come il Gatto e la Volpe, sono tornati con il proposito di truffare i bifolchi del villaggio; le vite impastate e morte di questi personaggi sono sorvegliate dalla figura del dottore, personaggio bizzarro come e più degli altri, che passa la vita in casa a osservare il mondo e ha un dossier su ogni singolo abitante del villaggio. Ma non solo. Nelle ultime tre pagine del romanzo, si scopre che è lui a scrivere: egli guarda fuori dalla finestra, cosa che nel libro fa in realtà molte volte, poi inchioda la porta di casa, raduna le medicine, la sua riserva di pàlinka, le matite e i fogli e si siede alla scrivania, dove comincia a raccontare la storia che abbiamo appena letto, in quella che diventa una struttura perfettamente circolare, ma chiusa e asfittica, in cui a chi legge manca una possibilità di fuga, per così dire: Satantango diventa così una storia che continuamente ricade dentro sé stessa, e chi arriva alla fine del romanzo si trova catapultato all’inizio, come se leggere significasse muoversi dentro una ruota o una gabbia circolare, ed essere i lettori di questo libro portasse a impantanarsi nello stesso fango e nella stessa impossibilità di fuga e cambiamento dentro cui si trovano i personaggi.

Diviso in due parti, ciascuna di sei capitoli, Satantango non ha un “indice”, ma un “Libretto da ballo”, e la numerazione dei capitoli – ognuno dei quasi sembra un paragrafo conchiuso e al contempo improvvisamente interrotto e poi ripreso nel movimento successivo – va, nella Parte prima, da I a VI, e torna, nella Parte seconda, da VI a I (come si diceva, si torna all’inizio…), mettendo in questo modo in scena l’andamento del tango, che prevede alcuni passi in avanti e alcuni indietro. È di fatto un ballo fermo, quello del romanzo, come ferme sono le esistenze che racconta Krasznahorkai, che spesso nel corso della narrazione ripropone la stessa scena, ovviamente narrata da punti di vista differenti o da differenti prospettive temporali; il tutto, all’interno di una prosa che va nella direzione esattamente opposta a quella di Gospodinov o Tokarczuk: qui siamo piuttosto su territori sebaldiani e bernhardiani, con frasi lunghissime e complesse (ma attenzione: il romanzo più recente di Krasznahorkai, Herscht 07769, è ancora più radicale, poiché è un’unica, interminabile e dolorosissima frase di circa 500 pagine – un esperimento già tentato una quindicina d’anni fa in Francia, da Mathias Énard), piene di ripetizioni e di subordinate che rendono la lettura un movimento lento, ipnotico, in certi tratti quasi trasognato, come se la storia che Krasznahorkai racconta fosse qualcosa che è accaduto in un mondo sospeso e per questo motivo chiedesse di essere letta in uno stato preconscio, di dormiveglia, che è in fondo lo stato in cui vivono sommersi i personaggi, le cui vite ballano costantemente sulla soglia di un’apocalisse che non arriva e che essi non sanno se desiderare o no. Krasznahorkai scrive l’apocalisse e dice che sarà un caos immobile, stantio, in cui l’umanità regredirà a uno stato bestiale dove le cose si ripetono in una sorta di eterno ritorno che può essere raccontato solo tramite una struttura circolare. Con almeno una clamorosa eccezione, il V capitolo della prima parte, posto grossomodo a metà testo e significativamente intitolato Scucitura: vi si racconta il dramma di Estike, una mentecatta poco più che bambina, convinta dal fratello a piantare dei soldi sotto un albero per farli crescere (di nuovo Pinocchio, a ben vedere); scoperto l’inganno, Estike, furibonda, tortura e uccide il proprio gatto, Micur e, tenendone il cadavere sottobraccio, si reca dal dottore per chiedergli di salvarlo, quindi si dirige, folle di dolore ed esasperazione, verso una casupola in rovina dove assume lo stesso veleno con cui ha ucciso l’animale e muore. Questo capitolo terribile, che mette in scena forse l’unico personaggio in grado di muoversi e di prendere una decisione sulla propria vita, racconta minuziosamente le azioni della bambina e soprattutto il suo errare per la campagna bagnata di pioggia – dalla sua casa all’albero dei soldi, dal posto dove trova il dottore alla casa in rovina in cui si uccide– e questo suo camminare, disperato e psicotico, è quasi sempre in linea retta, come se Krasznahorkai, in un capitolo il cui nome allude appunto a uno squarcio, una rottura dell’ordine, avesse all’improvviso, e per un dato numero di pagine, derogato alla struttura circolare del suo romanzo. Se in questo ci sia un messaggio o una certa, macabra ironia, lascio che siano i lettori a decidere.

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Queste strutture allucinate, questa lingua fluviale e lenta al tempo stesso sono, secondo Krasznahorkai, la riproposizione di un’urgenza. Per qualche motivo, siamo persuasi che una difficoltà emotiva, o una necessità, o la rabbia, insomma che i sentimenti per così dire forti, le grandi tensioni, positive o negative, spacchino le frasi, rendano l’eloquio spezzato, e dunque quando scriviamo o leggiamo siamo portati ad aumentare la frequenza dei punti fermi, dei tre puntini, dei segni esclamativi e, in generale, produciamo frasi brevi, lapidarie o incerte, ma fatte di pochi vocaboli e di nessun legame di subordinazione – come se la subordinazione delle frasi avesse bisogno, per realizzarsi, di uno stato di calma e di riflessione o, peggio, di un artificio. Per Krasznahorkai vale esattamente il contrario:

“Penso che l’imposizione di usare quasi esclusivamente frasi corte e stringate in letteratura sia il risultato di una certa educazione. Si è dato credito all’idea che esprimendosi in modo breve e conciso si sarà capiti, in caso opposto invece si risulterà incomprensibili. Siamo stati abituati, sia quando leggiamo poesia sia quando leggiamo prosa, a pensare che questo sia il modo di parlare più naturale, normale, facile da comprendere. Eppure non è così. Io avverto come artificiosa proprio questa prassi d’esprimermi in modo conciso, stringato, soprattutto quando voglio raccontare qualcosa di davvero importante. Se dopo una lunga incertezza e tormentata timidezza mi decido a cercar di convincere una signora di quanto io la ami, di quanto profondamente io sia innamorato di lei, del fatto che lei è la persona più importante per me, più della mia stessa vita, allora questo monologo, il monologo prorompente che si sprigionerà da me, sarà semplicemente impossibile da contenere nei limiti di frasi brevi, precise, sintetiche. Se voglio raccontare qualcosa di molto importante, se è davvero molto importante ciò che devo assolutamente dire, mi affiderò a un unico flusso di frasi, una frase-fiume, le cui leggi atterranno più a quelle della musica. Sto cercando di lanciare un avvertimento sull’arrivo della fine del mondo. Dovrei essere breve e conciso? La posta in gioco è troppo grande.”

Di nuovo, la forma, stavolta delle frasi, serve a conferire un senso al vissuto dei personaggi, di più: a una urgenza che è dell’autore. Krasznahorkai riconfigura in modo spregiudicato la realtà, la manipola, la ricostruisce creando un mondo, fatto di fango e gatti avvelenati e bambine folli, che non è reale ma è parallelo a questo, e per raccontarlo usa una lingua che è inarrestabile tanto quanto inarrestabile è il destino nero dei suoi personaggi. Questo, a me, pare molto più che raccontare semplicemente una storia: è creare un connubio indissolubile tra i fatti, e i personaggi che li attraversano, e la forma in cui essi ci vengono presentati. Le vicende di Satantango non possono esistere né tantomeno essere raccontate al di fuori della lingua e della struttura che Krasznahorkai ha scelto per loro.

[Continua…]

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