Le forme del mondo – 4

Qualcuno, seguendo il filo di questo discorso, potrebbe pensare che io stia riducendo la questione della Complessità a un principio estetizzante, e che mi senta vicino al vecchio adagio dell’«arte per l’arte», e dunque vada predicando una sorta di disimpegno in nome della bellezza. Non è così: per qualche motivo, siamo cresciuti pensando che l’impegno, l’assunzione di responsabilità nei confronti del mondo, passi attraverso i contenuti. Ebbene, io non lo credo, voglio dire che non credo che passi solo ed esclusivamente attraverso i contenuti. Sorprendentemente trovo conforto, in questa mia convinzione, proprio in Calvino, all’interno di un saggio, La sfida al labirinto, che si trova in una raccolta decisamente più efficace e ben calibrata delle Lezioni americane: Una pietra sopra, pubblicata nel 1980. In questa sua Sfida al labirinto, Calvino scrive che l’estetismo, così come lui chiama quel movimento artistico che predica la bellezza per la bellezza, fu una risposta che la cultura offrì allo “scandalo” della Prima rivoluzione industriale, che era «antiumanistica e impoetica». Bisognava che l’arte reagisse in qualche modo davanti all’industrializzazione del mondo, che lo imbarbariva e portava in primo piano le piccinerie di una classe, quella borghese, che non aveva senso della cultura: e questa risposta fu appunto «la religione della bellezza fuori dallo spazio e dal tempo». La bellezza, sembra dire Calvino in questo saggio, è una mossa politica. Ma va addirittura oltre, e fa un affondo che non mi sarei aspettato, con il quale apre una prospettiva insolita e bella su un certo modo di fare letteratura. Ascoltate:

“Per limitarci al romanzo francese nel periodo compreso tra George Sand e Zola, si salvano i due meno compromessi con l’ideologia umanitaria del tempo, Stendhal e Balzac (…) poi si salta fino a Flaubert, altro non compromesso, mentre cade Victor Hugo. E cade Zola che si documenta sulle miniere e sulle halles per ambientarvi le scene a effetto della sua immaginazione ancora victorhughiana.”

Rimangono, sopravvivono quelle forme di scrittura che vanno al di là dell’impegno politico spiccio (con tutto il rispetto per Zola e con qualche, motivata perplessità nei confronti del giudizio un po’ troppo perentorio che Calvino emette su Hugo): i romanzi minerari di Zola, oggi, sono invecchiati, li si può leggere come testimonianza di un certo modo, senza dubbio superato, di fare letteratura e come opere di denuncia sociale, condotta però intorno a una società che ormai è tramontata: e dunque sono tramontati con lei. I romanzi di Balzac, invece, così come quelli di Flaubert, oltre a raccontare una certa società fondano uno stile, dicono qualcosa sullo scrivere che è valido ancora oggi: parlano del linguaggio, e dunque parlano degli uomini e del mondo. Vivono.

Ricognizione nelle forme del mondo. L’Europa centrale e la Russia
Da alcune settimane, un piccolo editore torinese, Miraggi, ha tradotto e pubblicato uno strano romanzo, ma forse dovrei dire «uno strano oggetto letterario», che ha per titolo Il secondo addio: la sua autrice, Sylvie Richterová, è una scrittrice ceca emigrata nel nostro Paese all’inizio degli anni Settanta, che ha però continuato a scrivere nella sua lingua madre. Il secondo addio è stato composto nel 1994, e all’epoca fu il primo libro di Richterová che poté circolare liberamente nelle librerie del suo Paese d’origine. È un libro breve ma complesso, rapsodico, nel quale i narratori si scambiano di posto, ci sono manoscritti che passano di mano e di cui leggiamo degli estratti, e poi lettere, ricordi, frammenti: lo statuto del testo si fa via via volutamente incerto, inafferrabile. Ne parlo perché è un ottimo libro, ma soprattutto perché Richterová ha ritenuto opportuno corredare il testo di una breve introduzione, in cui dà conto delle condizioni in cui il romanzo è stato concepito e scritto e della sua storia editoriale ma, in particolare, si sofferma sul modo in cui è costruito il testo. Ascoltate:

“Creare un’unità di esperienza, di senso e di vita è una necessità esistenziale che può diventare imperativo estetico, una scommessa. Il modo tradizionale di scrivere non si poneva, avevo come esempio in primo luogo l’opera coraggiosa, “metaletteraria”, di Věra Linhartová e di altri autori cechi degli anni Sessanta, Bohumil Hrabal per esempio. Quando la storia non era più lineare e consequenziale ma piuttosto multidimensionale, e la biografia non si svolgeva nel tempo lineare, bensì attraverso una continua tessitura nel tempo e nello spazio di cui prendiamo coscienza. E siccome partecipano molti tessitori, il racconto può procedere benissimo con voci di narratori diversi.”

Vorrei fermarmi qualche istante su queste riflessioni. Richterová è un’esule, è fuoriuscita dal proprio Paese all’inizio degli anni Settanta, si è stabilita nei dintorni di Roma, ha imparato l’italiano e lo ha usato per la sua vita quotidiana: quando scrive Il secondo addio, vive lontana da casa ormai da un quarto di secolo; soprattutto, non sa più bene che cosa sia “casa”: per vent’anni non ha potuto farvi ritorno, ha avuto notizie da alcune persone che sono rimaste a vivere là ma che, ovviamente, nelle lettere che le hanno scritto non hanno potuto parlare liberamente; come lei, altri scrittori e artisti sono emigrati: Kundera, Jiří Kolář, la stessa Linhartová, e qualcuno ha cominciato a scrivere in una lingua che non è il ceco; in seguito, è crollato il Muro, la Cecoslovacchia si è divisa, il suo Paese ha cambiato nome e ha eletto come presidente un drammaturgo dissidente; insomma, credo di poter capire, anche se lo posso fare soltanto in modo razionale, che cosa Richterová intenda quando scrive che la storia, e le biografie che essa plasma, non è più lineare, è illogica e multidimensionale; e credo soprattutto di poter capire perché, quando scrive – e scrivere per lei significa fare i conti con questa esperienza di dispatrio e di rottura – non lo può più fare nel modo tradizionale: la sua pagina, allora, si frammenta, si spacca, i narratori si moltiplicano, si moltiplicano i media attraverso cui tutti loro si esprimono. La forma dei suoi romanzi dice le irregolarità dell’essere cechi, il dispatrio, il disorientamento linguistico, politico e sociale dentro cui chi è nato in quel Paese si trova immerso, senza riuscire a trovare un proprio centro.images-2

La stessa cosa capita dentro i libri di un altro grande scrittore orientale, il bulgaro Georgi Gospodinov, un uomo che definisce sé stesso qualcuno «che ama il mondo di ieri», credo in senso zweigiano. images-3Dice:

“I romanzi e le storie danno un falso conforto di ordine e di forma. Sembra quasi che qualcuno tenga tutti i fili dell’azione, conosca l’ordine e la conclusione, quale scena viene dopo l’altra. Un libro davvero audace, audace e sconfortante allo stesso tempo, sarebbe quello che in cui tutte le storie, accadute e non accadute, fluttuino intorno a noi nel caos primordiale, gridino e sussurrino, preghino e sghignazzino, si incontrino e si separino nel buio.
La fine di un romanzo è come la fine del mondo, è bene che si rimandi.”

Sono parole tratte dall’epilogo di uno strano, geniale romanzo del nostro tempo, Cronorifugio: sembra che il loro autore rifiuti il concetto di forma come se essa fosse una gabbia o, peggio, una mozione d’ordine, di imperio, che obbliga le scene ad avere una logica e il tempo della narrazione ad essere piano, consequenziale. Il mondo è disordinato e rotto, sembra dire Gospodinov, e i libri che lo vogliono raccontare devono essere come lui, e dunque devono essere oggetti anarchici, che lasciano da parte ogni filo conduttore. Gospodinov è nato a Jambol, una sperduta cittadina a metà strada tra Plovdiv e il Mar Nero, e lì ha trascorso l’infanzia e la giovinezza: quando, alla fine del 1989, il regime comunista della Bulgaria crollò, Gospodinov aveva ventuno anni, e si rese conto che la sua intera vita, dalle scuole alle relazioni, era stata irregimentata e decisa dall’alto; all’improvviso, gli sembrò di non aver avuto un’infanzia, e che molte delle cose per cui aveva gioito, spasimato e sofferto erano state in gran parte eterodirette. Così, la sua opera di scrittore è per lo più volta al recupero del tempo: in Cronorifugio esistono cliniche del passato, luoghi della memoria dove il tempo viene stoccato e in cui la gente può letteralmente vivere come si viveva in epoche che non torneranno più, come per esempio gli anni Sessanta del Novecento; addirittura, in Cronorifugio, i Paesi europei fanno un referendum sul passato, per esprimersi su quale sia il momento migliore della loro Storia nazionale. Ora, noi, qui, siamo abituati a pensare al passato come a qualcosa di fluido, di armonioso perfino: a ogni azione, corrisponde una reazione, e le nostre decadi sono ben definite, solide, ciascuna di loro possiede le sue icone, i suoi fotogrammi condivisi, le sue tragedie e il suo bagaglio di speranze; ma cosa succede a Paesi e popoli per i quali a un certo punto il passato si è rivelato una menzogna, una costruzione politica? Succede che questa armonia presunta scompare, che l’infanzia diventa a posteriori un’epoca incerta, che la realtà si sbrecca, la laccatura che l’ha resa bella si sfalda e rimangono i cocci. Così, chi ne vuole scrivere si trova davanti a un mondo informe, indecifrabile per lo più: e dunque prende in mano la penna e cerca una non-forma che lo possa restituire. È quello che succede in Cronorifugio, e in generale nell’opera di Gospodinov, che è fatta di romanzi che sono collezioni di frammenti, ammassi di cose piccole e rotte che, attraverso l’esercizio della memoria, l’autore raduna e mescola: il tempo non è lineare, ma la narrazione saltabecca attraverso le epoche, i narratori cambiano, lo stile varia, e l’opera è fatta di frammenti biografici, disegni, frasi in codice, riflessioni, citazioni, tutto.

[Continua…]

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