Le forme del mondo – 3

La mia tesi è elementare: la letteratura contemporanea, quella che dice davvero qualcosa sul mondo, ha reagito a questa condizione di minorità in cui si è ritrovata all’improvviso sul finire del Novecento lavorando sulla forma, moltiplicando o esasperando i modi attraverso cui le storie si possono raccontare, allungando le frasi o spaccando i paragrafi, creando particelle di senso o fiumi di suoni. Niente di nuovo, in un certo senso: ciò che semmai è diverso rispetto alle letterature del passato è che lo ha fatto come strategia di sopravvivenza e come stratagemma per continuare a restituire il mondo, quando il mondo è a portata di mano altrove. Questo non significa, naturalmente, che la letteratura abbia accantonato i contenuti o debba farlo: ma, in quanto forma d’arte, la letteratura ha senso se si propone come ragionamento sulla forma, se si pensa come discorso esteticamente pregnante. Il tema dei miei libri è lo stile, diceva Danilo Kiš. Questa presa di posizione ha, da parte mia, almeno un corollario: io non credo che uno scrittore sia in primo luogo e necessariamente un narratore – un raccontatore di storie. Lo è, naturalmente, ma in seconda, addirittura in terza istanza. I cantastorie esistono, e chiedono permessi sulle piazze berbere e ci ammaliano. Ma uno scrittore non è solo questo: è un produttore di pensiero e di visione, e l’unico modo che conosco per produrre pensiero è costruire un discorso, cioè conferire una forma a ciò che pensiamo del mondo e provare a farvi entrare un grammo di bellezza, trovando nuove analogie e relazioni tra le parole e le cose. Un discorso letterario funziona, o meglio, ha senso, se è in grado di ricostruire, attraverso il concatenamento delle parole e la loro disposizione nello spazio, com’è fatto il mondo, il suo ordine e il suo disordine: questo noi facciamo, o dovremmo fare. Ma il punto è che parliamo sempre tutti molto di storie, di contenuti, di emozioni, e molto poco di forma e di discorso, che invece sono le cose che rappresentano uno scarto tra quello che noi, come scrittori, facciamo e quello che fanno coloro che scrittori non sono. La vitalità di un romanzo – e dunque dello scrittore che lo ha composto – si dà solo tramite la forma: in questo, fatte le debite distinzioni, mi sento vicino a ciò che a più riprese disse uno scrittore con cui ho impiegato del tempo a entrare in relazione, Milan Kundera, che in opere come L’arte del romanzo, ma in realtà anche nei libri di narrativa, come per esempio nel Libro del riso e dell’oblio, ha sostanzialmente rivelato come quella che lui chiamava “la saggezza del romanzo”, vale a dire la sua capacità di essere veicolo di conoscenza del mondo, non vada ricercata nel suo “messaggio”, vero o potenziale, affidato al contenuto: al contrario, questa saggezza emerge dalla compressione dei rapporti in base a cui è organizzata la composizione formale. Kundera ha trovato questo equilibrio nel modo in cui ha costantemente variato i registri: ogni suo romanzo è infatti un’opera formalmente e stilisticamente composita, in cui coabitano, in una sorta di democrazia quantitativa, parti narrative, saggistiche, oniriche, riflessive, di racconto schietto. Che cosa intendo per democrazia quantitativa? Intendo che nelle sue opere meglio riuscite (il già citato Libro del riso e dell’oblio, ma anche L’insostenibile leggerezza dell’essere e La vita è altrove) queste parti, queste forme del discorso, occupano grossomodo ciascuna lo stesso numero di pagine delle altre: non esiste una dominante, tanto che chiunque volesse raccontare a qualcun altro “di che cosa parla” un certo libro di Kundera si renderebbe presto conto che la semplice esposizione della trama, di quello che succede ai personaggi, non renderebbe giustizia al romanzo e non farebbe capire all’interlocutore com’è fatta l’opera, e per due motivi: il primo, un po’ ovvio, è che le trame dei libri di Kundera sono sempre piuttosto esili e finiscono per assomigliare le une alle altre; il secondo, più cruciale, è che ridurre un suo romanzo a una semplice sequela di fatti significa non aver compreso che l’essenza di certi libri non sta nel cosa raccontano ma nel come lo fanno, ovvero sta in questa compenetrazione, in questa armonia di opposti (il saggio sul kitsch che introduce e illumina una storia d’amore tra umani, che a sua volta si sviluppa dentro un discorso sul fare letteratura entro i confini, linguistici e culturali, di un Paese sotto dittatura, condizione, questa, che apre a sua volta la strada a certe congetture sull’esistenza che servono a gettare una luce nuova e inattesa sulla questione del kitsch e così via). Ogni romanzo dice sostanzialmente il modo in cui è scritto, e lo dice mentre viene scritto: e questo dire o dirsi è la massima forma di conoscenza del mondo che un’opera letteraria può fornire. Mi spiego con due esempi, due voli d’uccello sulle opere di due giganti del Novecento, il cui lavoro sulla forma mi interessa anche perché fu condotto sostanzialmente in contemporanea, e dunque dice qualcosa anche sul secolo da cui tutti proveniamo: William Faulkner e Vladimir Nabokov.

imagesNel 1929, Faulkner pubblica un romanzo, ancora oggi tra i suoi più noti, che, per certi versi, almeno dal punto di vista linguistico, è “ancora molto Joyce e troppo poco Faulkner”: ma è un grande libro, si chiama L’urlo e il furore, e racconta quattro giornate, disseminate nell’arco di una ventina d’anni, della vita di una famiglia della contea immaginaria di Yoknapatawpha, che Faulkner ha messo da qualche parte nel sud degli Stati Uniti, sulle rive del Mississippi. Loro sono i Compson, sono bianchi, hanno una storia tragica alle spalle, e la raccontano in quattro lunghi monologhi – i primi tre affidati ai tre figli, di cui uno, Benji, è un demente di 33 anni, e il quarto, in terza persona, appoggiato ai pensieri della serva di colore che li ha cresciuti e che ha a sua volta tre figli e un nipote, il quale si occupa di Benji. Chi legge questo romanzo, legge quattro monologhi fluviali, ognuno dei quali è scritto con uno stile particolare, riconoscibile e personale, e che si intrecciano nel tempo e nello spazio e concorrono a ritrarre la famiglia Compson e il suo mondo.

L’anno successivo, Faulkner scrive, in poche settimane e mentre lavora come fuochista in una centrale elettrica (ci sono leggende sulla composizione di questo romanzo, come per esempio quella che dice che alcune delle sue parti furono scritte di notte o nelle pause, usando come scrivania una carriola rovesciata), Mentre morivo, altra storia famigliare, che ha a che vedere con un viaggio e con l’attraversamento di una soglia, raccontata per voci e frammenti: una donna muore, e il marito e i cinque figli trasportano il corpo verso la sua città natale per seppellirvelo, mentre un’inondazione minaccia le terre che attraverseranno. Tutto qui. Ma, ecco, il romanzo è costruito per voci, per piccoli, a volte piccolissimi frammenti: ogni capitolo prende il nome del personaggio che racconta, e ora si racconta di qualcosa che appartiene al passato, ora si riflette sul presente, ora ciò che il narratore dice fa progredire la trama.

Nel 1939 Faulkner pubblica Le palme selvagge, opera meravigliosa e assurda, irripetibile (come del resto quasi tutto ciò che ha scritto). Sono due storie. Nella prima, Palme selvagge, ci sono due amanti in fuga: vogliono vivere isolati dal mondo, ma lei rimane incinta e devono trovare il modo di interrompere la gravidanza; nella seconda, Il vecchio, c’è di nuovo un’inondazione, e un anziano detenuto viene fatto uscire dal carcere affinché salvi una donna incinta che è rimasta aggrappata a un albero parzialmente sommerso: la trova, la aiuta a partorire e, poi, ritorna di sua spontanea volontà nel penitenziario. Ecco, queste due storie non hanno nulla a che vedere l’una con l’altra: non c’è una relazione tra i personaggi, i luoghi, gli anni, perfino i temi; l’unico rapporto che hanno, di fatto, è formale: sono raccontate a capitoli alternati, sono intrecciate, i capitoli dispari dicono la storia degli amanti, i capitoli pari la storia del forzato. Se Faulkner avesse semplicemente pubblicato i due racconti, Palme selvagge e Il vecchio, in sequenza, da quasi un secolo parleremmo di un dittico capolavoro, ma saremmo in pace con lui e con la nostra esperienza di lettori. Invece le ha incastrate l’una sull’altra, suggerendo implicitamente una relazione che non c’è: così, da quasi un secolo, parliamo di un mistero, di due mondi che non comunicano ma che sono messi in contatto, e cerchiamo, ogni volta che leggiamo questo libro storto e sublime, di capire per quale motivo le vite di questi due amanti sfortunati e sciocchi e del forzato che potrebbe fuggire e non lo fa sono state legate per l’eternità in una forma insolita e arbitraria: e sentiamo che questo arbitrio dona al testo, un senso ulteriore, lo rende un “romanzo” anche se romanzo non è, dice qualcosa che, se le storie fossero state pubblicate in sequenza anziché in alternanza, non avremmo immaginato di dover cercare. Che cosa sia questo qualcosa, quale sia questo senso profondo io non lo so. C’è un segreto, dentro questo libro, ma non lo conosce nessuno, forse non lo conosceva nemmeno Faulkner: quello che conta è che ci sia, e che chiunque si avvicini alle Palme selvagge lo percepisca, magari confusamente, e nel cercare un senso scopra qualcosa in più sul mondo che abbiamo attorno.

Due anni prima di questo libro assurdo, dall’altra parte del mondo occidentale, a Berlino, Vladimir Nabokov scriveva un romanzo «la cui eroina è la letteratura russa». Si chiama Il dono, e credo di poter affermare che si tratti del suo capolavoro, anche se con ogni probabilità lui non sarebbe d’accordo. Siamo negli anni Venti, e in un certo senso quello che abbiamo in mano è il romanzo di formazione di Fëdor Godunov-Čerdyncev, giovane scrittore russo émigré a Berlino e alla ricerca del padre esploratore, finito chissà dove. Lascio descrivere a Nabokov, in poche ma efficaci parole, come è fatto questo libro:

“L’intreccio del primo capitolo ruota intorno alle poesie di Fëdor. Il secondo segna l’aspirazione a Puškin nell’evoluzione letteraria di Fëdor e contiene (anche) il suo tentativo di descrivere le esplorazioni zoologiche del padre. Il terzo si sposta verso Gogol’, ma il suo vero perno è la poesia d’amore dedicata a Zina. Il libro di Fëdor su Černyševskij, una spirale all’interno di un sonetto, occupa l’intero quarto capitolo. L’ultimo combina tutti i temi precedenti e adombra il libro che Fëdor sogna di scrivere un giorno: Il dono.”nabokov-butterflies

Ogni capitolo ha dunque un punto di riferimento letterario evidente (Puškin, Gogol’ e così via), ma tutto il testo è attraversato da riscritture apocrife o citazioni, a volte sotterranee, ispirate o prese dalla letteratura russa di ogni epoca. Il movimento centrale del romanzo è il quarto capitolo, la biografia di Nikolaj Černyševskij che Fëdor scrive e che costituisce una lunga ed entusiasmante digressione saggistica all’interno del romanzo. La cosa curiosa è questa: nel terzo capitolo, Fëdor porta a un certo Vasil’ev, editore dell’emigrazione russa a Berlino, la sua Vita di Černyševskij e, alcune pagine più tardi, si reca da lui perché è convinto che verrà pubblicata. Ora, dovete sapere che Černyševskij è stato uno scrittore socialista della seconda metà dell’Ottocento: la sua opera capitale, pubblicata tra il 1862 e il 1863, è il romanzo Che fare? (il cui titolo sarebbe stato ripreso a inizio Novecento nientemeno che da Lenin, in un pamphlet che rimane una delle sue opere più famose e significative in senso rivoluzionario): ora, il Che fare? di Černyševskij è un’opera di rara bruttezza e sciatteria, che ebbe però un’eco enorme poiché, nella Russia di Alessandro II, aveva il coraggio di propugnare ideali libertari e di metterli in scena grazie alla grande forza morale e alla volontà inscalfibile della protagonista, Vera Pavlovna. Nel Dono, Fëdor fa dello scrittore ottocentesco un ritratto spietato: egli è un mediocre e i suoi libri sono spazzatura (ovviamente sto banalizzando: il capitolo IV del Dono è di un’intelligenza e una bellezza lancinanti e consta di un centinaio di pagine che non posso riassumere qui); quando chiede all’editore Vasil’ev se è disposto a pubblicarlo, Fëdor si sente rispondere che «È escluso che io abbia una qualsiasi parte alla sua pubblicazione. Credevo che si trattasse di un lavoro serio, e invece sono invenzioni campate in aria, imperdonabili, antisociali, offensive». E ancora: «Esistono tradizioni dell’intelligencija russa su cui uno scrittore onesto non può permettersi di scherzare. Che lei abbia o non abbia talento a me è del tutto indifferente, so soltanto che scrivere un libello diffamatorio contro un uomo delle cui opere e sofferenze si sono nutriti milioni di russi colti è indegno di qualsiasi talento».
Nabokov pubblicò Il dono tra il 1937 e il 1938 sulla rivista “Sovremennye zapiski”, edita a Parigi: la prima edizione constava dei capitoli I, II, III… e V. Il capitolo IV gli era stato rifiutato, grossomodo con le stesse motivazioni di Vasil’ev.
Ma sto divagando. Il punto è questo: Il dono è fatto di cinque capitoli sovraccarichi di citazioni e riscritture e, soprattutto, di quattro capitoli ad andamento narrativo interrotti da un saggio monografico che viene scritto dal protagonista il cui sogno finale è scrivere il libro che contiene questi quattro capitoli più uno e di intitolarlo Il dono.

Nel 1962, Nabokov, da tempo ormai un autore che ha definitivamente adottato la lingua inglese, scrive Fuoco pallido, altra opera unica e irripetibile, fondata su un geniale principio di variazione formale. Vi mostro l’indice:

Prefazione
Fuoco pallido. Poema in quattro canti
Commento
Indice analitico
Note del Curatore

La prefazione è di circa venti pagine, il poema è di 999 versi totali, il commento occupa circa 230 pagine (si tratta in sostanza della parte più consistente di quest’opera), l’indice analitico ha una dozzina di pagine, le note finali sono brevissime. Che tipo di oggetto ha per le mani chi legge Fuoco pallido? La prefazione, firmata da Charles Kinbote, uno dei due personaggi finzionali che possono essere classificati come “protagonisti”, racconta del ritrovamento di Fuoco pallido, un poema scritto da John Shade, poeta e professore in un certo Wordsmith College e collega di Kinbote, recentemente scomparso in circostanze solo apparentemente chiare. Nel poema, Shade mette ricordi personali e riflessioni metafisiche: su tutto, grava l’ombra, terribile, del suicidio della figlia. Così, il libro comincia presentando ai lettori un poema e prosegue, ça va sans dire, pubblicando il testo del poema in questione, a cui fanno seguito oltre duecento pagine di commento: verso per verso, letteralmente, Kinbote commenta Fuoco pallido, ora dal punto di vista linguistico, ora da quello delle scelte formali, ora raccontando i retroscena della composizione e, di riflesso, la vita di Shade e la propria (è un esule: è fuggito da un luogo immaginario in cui è stata instaurata una dittatura molto simile a quella sovietica), e finendo naturalmente per mistificare tutto, rivelandosi un essere pettegolo e cialtrone, oltre che intelligentissimo e furbo, e spacciandosi per il vero ispiratore dei versi di Shade. Fuoco pallido – il libro intero, si intende – può essere letto come il delirio monomaniacale di un narcisista che commenta un poema e commentandolo parla di sé, o come il compianto per un amico perduto, o come una confessione sotto mentite spoglie, o ancora come un’enorme, geniale truffa (giacché il dubbio che Shade non abbia scritto il poema diviene legittimo in chi legge certi passaggi secondo una certa prospettiva). Non è importante: ciascuno trovi la chiave, anzi, le chiavi di ingresso che più gli pertengono.

Ciò che invece è importante è che, al netto del gioco letterario e della presenza costante e ineludibile della letteratura, Fuoco pallido è un libro molto diverso dal Dono, così come Le palme selvagge è un’opera, per concezione e forma, non riconducibile a Mentre morivo o a L’urlo e il furore. È come se Faulkner e Nabokov, nel progettare un romanzo, si domandassero prima di ogni altra cosa come organizzare il proprio discorso, anche e soprattutto in relazione a come era stato organizzato nelle loro opere precedenti. (Una delle conseguenze vertiginose di questo fatto è che, nella letteratura del Novecento, pochi autori si somigliano come si somigliano Nabokov e Faulkner – che per inciso sono, per temi, sensibilità e immaginario, due scrittori lontanissimi l’uno dall’altro. A entrambi non interessa raccontare una storia, o non solo: a entrambi interessa fondare uno stile, un modo, una complessità).

Nessuno troverà, in tutta la produzione faulkneriana, un altro testo che sia organizzato secondo i principi formali dell’Urlo e il furore, vale a dire che non esiste, in Faulkner, una storia raccontata da quattro voci che non sia L’urlo e il furore; allo stesso modo, solamente Il dono ha, in tutta l’opera di Nabokov, una struttura suddivisa in cinque parti dove una è la riproduzione di un’opera scritta dal protagonista – una specie di romanzo nel romanzo, anzi, di saggio nel romanzo il cui autore è un personaggio, che a sua volta sogna di scrivere il romanzo che contiene lui e il suo saggio biografico su un autore del passato. Ogni libro si fonda su un principio formale che supera, o nega, o reinventa i principii formali che hanno dato vita ai libri precedenti: in questo modo, leggere l’opera completa di Faulkner o Nabokov significa attraversare tutte le forme e le tecniche attraverso cui le storie possono essere raccontate; significa entrare in contatto con un’enciclopedia dei discorsi possibili, con un principio costante di variazione che, in ultima analisi, affida all’estetica – intesa qui, in senso forse improprio, quasi settecentesco, come arte della forma – la più profonda e completa missione conoscitiva possibile. Insomma: se il linguaggio è la facoltà umana grazie alla quale noi impariamo il mondo e lo restituiamo, il modo in cui lo utilizziamo, dando forma ai nostri discorsi, è la massima espressione di conoscenza che ci è dato di possedere. (Quando il cantastorie sulla Djema-al-Fna all’improvviso interrompe il suo racconto per poi ricominciare, noi impariamo qualcosa sul desiderio).

[Continua…]

Lascia un commento