Le forme del mondo – 2

Mi ero ripromesso di non nominare mai, in questo intervento, Italo Calvino, autore con cui ho per vari motivi un rapporto conflittuale (è un eufemismo) e che, benché nel corso della mia vita io abbia letto un buon numero di sue opere, non mi ha dato nulla. Era un gioco, una piccola sfida che pensavo di lanciare a me stesso. Ma mi rendo conto che, poiché questo mio intervento viene scritto e detto grazie al fatto che esistono alcuni suoi vecchi appunti intorno al concetto di Molteplicità, è da questi che devo partire, e perciò non ha molto senso darsi delle regole che, poi, non si potranno rispettare. 

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Calvino, lo sappiamo, sviluppa il concetto di Molteplicità attraverso una serie di esempi, tra i quali spiccano i riferimenti al Pasticciaccio di Gadda, all’Uomo senza qualità di Musil, a Bouvard e Pécuchet di Flaubert e, in misura minore, alla Recherche di Proust e all’Amore assoluto di Jarry. Sono tutte opere scelte come “campioni” di una possibile forma della Molteplicità: così, il gomitolo del Pasticciaccio segnala come Gadda veda il mondo come un «sistema di sistemi», in cui ogni sistema singolo condiziona gli altri e ne è condizionato. Nell’opera, ma in generale nella visione di Gadda, ogni minimo oggetto, sia esso fisico o linguistico, è visto come una rete di relazioni che lo scrittore non sa trattenersi dal seguire, moltiplicando i dettagli in modo che le sue descrizioni e divagazioni diventino infinite, creando di fatto un’opera che è fatta di relazioni che continuamente si innescano l’un l’altra e, facendolo, moltiplicano le prospettive del reale; Musil, invece, costruisce un’opera totale, allo stesso tempo pacata e folle, dove prova letteralmente a infilare, talvolta a forza, tutto quello che sa o pensa: il risultato è che questo suo romanzo, o non-romanzo, gli cresce tra le mani, diventa incontrollabile, rompe gli argini della forma, si slabbra, apre linee narrative o di pensiero da cui gemmano altra linee narrative o di pensiero, perde la flebile traccia di trama che l’autore si era imposto come una mozione d’ordine e diventa a poco a poco un coacervo di frammenti, prospettive, possibilità. Si perde però, non conclude, vagola in una nube indistinta, fa congetture, ritorna sui passi, si apre alla forma del saggio… e di fatto fallisce. L’esibizione di questo fallimento fa parte dell’opera o del suo progetto in fieri, e perciò c’è in essa qualcosa di euforico: proprio quando il libro, e con lui l’autore, si fanno consapevoli del fatto che non riusciranno a portare a compimento il progetto il fallimento diventa per così dire un fattore identitario. L’uomo senza qualità è un’opera che guarda sé stessa e dice: «Voglio contenere tutto il mondo, lettori, ma so bene che il mondo non lo si contiene, perciò guardatemi fallire, e riconoscetemi, e godete insieme a me della mia sconfitta»; una cinquantina di anni prima, un altro grande romanzo enciclopedico aveva fallito: quello che Flaubert aveva tentato con Bouvard e Pécuchet – opera-mondo che è un tentativo di restituire, attraverso le parole, una descrizione completa ed esaustiva di che cosa è il mondo. Bouvard e Pécuchet sono due copisti parigini che si incontrano e cominciano un percorso all’interno del sapere: diventano agricoltori, poi si occupano di medicina, di chimica, di geologia, di letteratura, di filosofia, di pedagogia e via dicendo, ogni volta provando ad assimilare tutto lo scibile intorno all’argomento scelto, e ogni volta inevitabilmente fallendo, poiché nessuna conoscenza totale è possibile per l’uomo, e nemmeno per due. Ecco, per scrivere il suo libro, che fu pubblicato postumo e incompiuto (ma, del resto, un’opera che cerca di tenere dentro tutto non può compiersi per natura), Flaubert si trasformò in un’enciclopedia ben prima che lo facessero i suoi Bouvard e Pécuchet – vale a dire che egli dovette studiare e imparare le cose che poi i suoi protagonisti avrebbero provato a mettere in pratica nelle pagine del romanzo. Divenne insomma un uomo-enciclopedia per garantire un sapere enciclopedico ai suoi personaggi. Fallì, grossomodo per gli stessi motivi per cui avrebbe fallito, in seguito, Robert Musil, ma anche perché, come sostiene Danilo Kiš, sembrò non aver capito che i tempi (si era negli anni Settanta del XIX secolo) erano cambiati, e che la letteratura, che fino a lui, sull’esempio di Balzac, aveva rappresentato un insieme compatto, era entrata in un periodo di decadenza. Dice Kiš: 

La letteratura ha perso la sua egemonia, la sua obiettività, la sua integrità. Ma la letteratura è stata costretta a convivere con la tragica consapevolezza del paradiso perduto. Da qui l’inutile tentativo di ritrovare, attraverso un’opera (Bouvard e Pécuchet, per esempio) e per vie indirette, quella condizione di totalità, quell’universalità divenuta irraggiungibile. Come se Flaubert non avesse compreso che il mondo è ormai andato in frantumi. 

O forse Flaubert è qualcuno che, semplicemente, prova a resistere, e lo fa presentando un romanzo che dice che il mondo è uno e che, in virtù di questa unità, è leggibile e domabile attraverso la conoscenza. Non era la prima volta che Flaubert provava a fare una cosa del genere, anzi: il progetto di più lunga durata di tutta la sua vita di scrittore, La tentazione di Sant’Antonio, fa capo proprio a questa idea totalitaria – conoscere tutto. Riscritta tre volte lungo tutto l’arco di una vita, e ogni volta ampliata, ribaltata, reimmaginata, la Tentazione è un momento all’erudizione e al sapere – un’opera fatta di libri che ricostruisce come un enorme, doloroso apocrifo, il percorso di Sant’Antonio. Foucault ne scrisse sostenendo che con la Tentazione Flaubert aveva aperto 

uno spazio di immaginazione di cui le età precedenti probabilmente non avevano sospettato la potenza. Questo nuovo luogo di fantasmi non è più la notte, il sonno della ragione, il vuoto incerto spalancato davanti al desiderio: è al contrario la veglia, l’attenzione continua, lo zelo erudito, l’attenzione sempre vigile. (…) il fantastico (…) lo si attinge all’esattezza del sapere. (…) Per sognare, non bisogna chiudere gli occhi, bisogna leggere. 

Lo chiamò il “fantastico da biblioteca” – un genere che, un secolo più tardi, ci avrebbe costretto a sfogliare la nostra edizione delle Mille e una notte per vedere che cosa si racconta nella storia seicentodue. Questo mi porta a Calvino e alla definizione che diede di Molteplicità. Eccola:   

Il romanzo come enciclopedia, come metodo di conoscenza, e soprattutto come rete di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo; il saper tessere insieme i diversi saperi e i diversi codici in una visione plurima, sfaccettata del mondo; una campionatura della molteplicità potenziale del narrabile. 

Calvino individua alcuni modi attraverso cui la letteratura declina questi aspetti o possibilità del romanzo: il testo plurimo (ne è un esempio L’amore assoluto di Jarry), l’opera-enciclopedia (Musil), l’opera non sistematica, che non è un tutto organico, ma procede per aforismi e illuminazioni (il nome che fa qui è Valéry). Dati definizione ed esempi, Calvino si concede una chiosa: 

Magari fosse possibile un’opera che ci permettesse di uscire dalla prospettiva limitata d’un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola… 

Non ho ben chiaro che cosa intenda dire in questo passaggio, non riesco a capire nemmeno se abbia in mente un’opera specifica, o un progetto particolare: rimane sul vago, dice e non dice, e qui come altrove ciò che sostiene difetta di argomentazione, non va molto al di là dell’intuizione di un uomo intelligente. Ma il punto è che, nel mondo di oggi, questa idea della Molteplicità per come l’ha abbozzata Calvino credo si sia realizzata. C’è. Solo che non è nei libri, almeno non nelle forme accennate nelle Lezioni americane. È nella Rete, cioè è fuori dalla letteratura. Questo impone – mi impone – un cambio di paradigma. La domanda implicita del saggio di Calvino, che potrebbe essere resa come «Che cos’è la molteplicità? E quali caratteristiche hanno le opere letterarie che hanno provato a riprodurla?», non vale più, non dice più nulla sul mondo di oggi e su come il pensiero e l’artigianato letterario possano restituirlo. È una domanda che sta tutta dentro la fase terminale del Novecento, quando si cominciava a parlare di Villaggio globale ma non se ne avevano le coordinate, quando non tutto era narrazione e quando, soprattutto, non tutto era piegato sul contenuto. Ma, e questo è il punto, se vale l’idea che la Molteplicità, a cui tra poco cambierò nome, è qualcosa che ha a che vedere con il sapere enciclopedico, con la possibilità che i libri siano un veicolo di conoscenza e con l’idea, a volte folle, che tutto il mondo possa finire dentro un libro, come può, oggi, la letteratura dire la complessità del mondo quando l’enciclopedia esiste, ma sta fuori dai libri? È lì, fuori dalla letteratura, che si realizza quel sogno di una molteplicità efficace che mi pare sia il sottotesto della lezione di Calvino. Ma se davvero la molteplicità del mondo è dentro un telefono, che cosa può dire di nuovo, o di diverso, la letteratura? Come può un libro, e un romanzo in particolare, continuare a contribuire alla conoscenza del mondo? Questo mi pare il tema di oggi, anzi: mi pare il tema capitale per chi fa il nostro lavoro.In un libro di Franco Moretti ho trovato una parola, e una definizione, che mi sembra si adattino meglio di Molteplicità al nostro mondo: la parola, Complessità, è nota e forse perfino abusata; la definizione, invece, è di un epistemologo francese, Jean-Louis Le Moigne, e dice: «La complessità è la proprietà di un sistema modellizzabile di mostrare dei comportamenti che non siano tutti pre-determinabili (necessari) anche se potenzialmente anticipabili (possibili) da un osservatore istituzionale di questo sistema». Vorrei il permesso di usare, da qui in avanti, la parola Complessità come alternativa di Molteplicità e come sua integrazione e ampliamento. Fate attenzione alle parole di Le Moigne: dice che la Complessità è una proprietà di un sistema modellizzabile. È ovvio che questo sistema può essere il mondo nella sua interezza; ma può essere anche una sua riduzione, un sistema piccolo, come il sistema letterario, e addirittura si può ridurre tutta questa complessità a un libro solo. Dunque, cambiando nome, vale a dire sostituendo Molteplicità con Complessità, cambio anche paradigma: per Calvino la Molteplicità era una proprietà del mondo, e i libri provavano ad acciuffarla; qui, oggi, la Complessità può essere semplicemente una proprietà di un libro, che sviluppandola si fa specchio del mondo. Sto insomma proponendo di camminare in senso inverso rispetto a come camminava Calvino. 

[Continua…]

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