Le forme del mondo – 6

Nell’Arte del romanzo, Kundera sostiene che il romanzo per come oggi lo conosciamo nacque nel momento in cui Don Chisciotte uscì di casa e non fu più in grado di riconoscere il mondo: egli pensava che le persone e le cose si comportassero in un certo modo, reagissero a certi stimoli o motivi, e invece le persone e le cose funzionavano altrimenti. I primi romanzi europei sono viaggi attraverso il mondo, un mondo che sembra illimitato e che dunque va esplorato, conosciuto e restituito: dai tempi dell’Odissea, il cronotopo del viaggio è il primo motivo per cui raccontiamo storie. Ma Kundera va oltre, e fa una considerazione che mi dà da pensare. Dice:

“Non è Don Chisciotte stesso che, dopo un viaggio di tre secoli, torna al villaggio travestito da agrimensore? Lui che un tempo era partito per scegliere le sue avventure, adesso, in questo villaggio sovrastato dal castello, non ha più scelta, l’avventura gli viene ordinata.”

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Le forme del mondo – 3

La mia tesi è elementare: la letteratura contemporanea, quella che dice davvero qualcosa sul mondo, ha reagito a questa condizione di minorità in cui si è ritrovata all’improvviso sul finire del Novecento lavorando sulla forma, moltiplicando o esasperando i modi attraverso cui le storie si possono raccontare, allungando le frasi o spaccando i paragrafi, creando particelle di senso o fiumi di suoni. Niente di nuovo, in un certo senso: ciò che semmai è diverso rispetto alle letterature del passato è che lo ha fatto come strategia di sopravvivenza e come stratagemma per continuare a restituire il mondo, quando il mondo è a portata di mano altrove. Questo non significa, naturalmente, che la letteratura abbia accantonato i contenuti o debba farlo: ma, in quanto forma d’arte, la letteratura ha senso se si propone come ragionamento sulla forma, se si pensa come discorso esteticamente pregnante. Il tema dei miei libri è lo stile, diceva Danilo Kiš. Questa presa di posizione ha, da parte mia, almeno un corollario: io non credo che uno scrittore sia in primo luogo e necessariamente un narratore – un raccontatore di storie. Lo è, naturalmente, ma in seconda, addirittura in terza istanza. I cantastorie esistono, e chiedono permessi sulle piazze berbere e ci ammaliano. Ma uno scrittore non è solo questo: è un produttore di pensiero e di visione, e l’unico modo che conosco per produrre pensiero è costruire un discorso, cioè conferire una forma a ciò che pensiamo del mondo e provare a farvi entrare un grammo di bellezza, trovando nuove analogie e relazioni tra le parole e le cose. Un discorso letterario funziona, o meglio, ha senso, se è in grado di ricostruire, attraverso il concatenamento delle parole e la loro disposizione nello spazio, com’è fatto il mondo, il suo ordine e il suo disordine: questo noi facciamo, o dovremmo fare. Ma il punto è che parliamo sempre tutti molto di storie, di contenuti, di emozioni, e molto poco di forma e di discorso, che invece sono le cose che rappresentano uno scarto tra quello che noi, come scrittori, facciamo e quello che fanno coloro che scrittori non sono. La vitalità di un romanzo – e dunque dello scrittore che lo ha composto – si dà solo tramite la forma: in questo, fatte le debite distinzioni, mi sento vicino a ciò che a più riprese disse uno scrittore con cui ho impiegato del tempo a entrare in relazione, Milan Kundera, che in opere come L’arte del romanzo, ma in realtà anche nei libri di narrativa, come per esempio nel Libro del riso e dell’oblio, ha sostanzialmente rivelato come quella che lui chiamava “la saggezza del romanzo”, vale a dire la sua capacità di essere veicolo di conoscenza del mondo, non vada ricercata nel suo “messaggio”, vero o potenziale, affidato al contenuto: al contrario, questa saggezza emerge dalla compressione dei rapporti in base a cui è organizzata la composizione formale. Kundera ha trovato questo equilibrio nel modo in cui ha costantemente variato i registri: ogni suo romanzo è infatti un’opera formalmente e stilisticamente composita, in cui coabitano, in una sorta di democrazia quantitativa, parti narrative, saggistiche, oniriche, riflessive, di racconto schietto. Che cosa intendo per democrazia quantitativa? Intendo che nelle sue opere meglio riuscite (il già citato Libro del riso e dell’oblio, ma anche L’insostenibile leggerezza dell’essere e La vita è altrove) queste parti, queste forme del discorso, occupano grossomodo ciascuna lo stesso numero di pagine delle altre: non esiste una dominante, tanto che chiunque volesse raccontare a qualcun altro “di che cosa parla” un certo libro di Kundera si renderebbe presto conto che la semplice esposizione della trama, di quello che succede ai personaggi, non renderebbe giustizia al romanzo e non farebbe capire all’interlocutore com’è fatta l’opera, e per due motivi: il primo, un po’ ovvio, è che le trame dei libri di Kundera sono sempre piuttosto esili e finiscono per assomigliare le une alle altre; il secondo, più cruciale, è che ridurre un suo romanzo a una semplice sequela di fatti significa non aver compreso che l’essenza di certi libri non sta nel cosa raccontano ma nel come lo fanno, ovvero sta in questa compenetrazione, in questa armonia di opposti (il saggio sul kitsch che introduce e illumina una storia d’amore tra umani, che a sua volta si sviluppa dentro un discorso sul fare letteratura entro i confini, linguistici e culturali, di un Paese sotto dittatura, condizione, questa, che apre a sua volta la strada a certe congetture sull’esistenza che servono a gettare una luce nuova e inattesa sulla questione del kitsch e così via). Ogni romanzo dice sostanzialmente il modo in cui è scritto, e lo dice mentre viene scritto: e questo dire o dirsi è la massima forma di conoscenza del mondo che un’opera letteraria può fornire. Mi spiego con due esempi, due voli d’uccello sulle opere di due giganti del Novecento, il cui lavoro sulla forma mi interessa anche perché fu condotto sostanzialmente in contemporanea, e dunque dice qualcosa anche sul secolo da cui tutti proveniamo: William Faulkner e Vladimir Nabokov.

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