Dopo l’uomo. Tre fini e un inizio

[È un vecchio pezzo – piuttosto lungo – che non mi ricordavo di avere. Era stato scritto per il quinto numero del Primo amore, il Che fare? Parla di apocalissi reali e immaginate. Il primo paragrafo, dedicato al Diario di Hiroshima di Michihiko Hachiya, era già stato pubblicato su questo stesso sito l’ottobre scorso].

Dopo la pika – la fine vista da vicino (Michihiko Hachiya, Diario di Hiroshima)

Il dottor Michihiko Hachiya, direttore dell’Ospedale delle Comunicazioni di Hiroshima, comincia a scrivere il suo diario l’8 agosto 1945, cioè circa 48 ore dopo lo scoppio della bomba. Egli comincia così: «Erano le prime ore di una bella giornata tranquilla e calda». L’ossessione del tempo, del tempo atmosferico, è uno dei tanti leitmotiv che accompagnano la scrittura di quest’uomo mite e razionale, umile e intelligente, nonché assolutamente inconsapevole di aver scritto una delle testimonianze più vive, umane e commuoventi su quella che rimane una delle più sorprendenti catastrofi della storia dell’uomo. Ogni giorno di diario si apre per Hachiya con la registrazione puntuale del tempo: «Cielo generalmente sereno» «Un’altra splendida giornata» «Pioggia. Cielo coperto»; evidentemente ogni diarista deve avere il suo mantra, e quello di Hachiya è la situazione del cielo.
Poche righe più sotto il suo piccolo e puntuale esordio, il dottor Hachiya, con una certa approssimazione, è in grado di descrivere quello che è successo la mattina del 6 agosto, mentre lui si trovava nella sua casa, steso per terra per riposarsi dopo un turno particolarmente duro all’ospedale:

«All’improvviso fui abbagliato da un lampo di luce, seguito immediatamente da un altro. A volte, di un evento, si ricordano i più minuti particolari: rammento perfettamente che una lanterna di pietra nel giardino si illuminò di una luce vivida, e io mi chiesi se fosse prodotta da una vampa di magnesio, o non piuttosto dalle scintille di un tram di passaggio. (…) Istintivamente mi alzai per fuggire, ma mi trovai il passo sbarrato da detriti e travi crollate. (…) Mi sentivo straordinariamente debole, e dovetti fermarmi per riprendere fiato. Con mio grande stupore, mi accorsi che ero completamente nudo. (…) Lungo tutto il fianco destro ero escoriato e sanguinante. Da una ferita aperta nella coscia spuntava una grossa scheggia, e in bocca mi sentivo qualcosa di caldo. Avevo un taglio sulla guancia, me ne accorsi passandoci con cautela la mano, e il labbro inferiore era spaccato. Un frammento di vetro piuttosto grosso mi si era infilato nel collo (…)».

La casa del dottor Hachiya si trova a circa 1.500 metri dall’ipocentro dell’esplosione – posto che sia possibile identificarne un ipocentro, giacché più volte, nel suo diario, Hachiya riporta le discussioni relative all’esatto punto dove è esplosa la bomba. Si scoprirà poi che, in realtà, la bomba si è disintegrata alcune centinaia di metri prima di toccare il suolo di Hiroshima. Il dottore e la moglie, Yaeko, riescono a raggiungere l’ospedale, dove cominciano a curarsi. Questo è il momento in cui ha inizio il periodo di 56 giorni coperto dal diario, tenacemente scritto nelle ore libere tra una crisi, una notte insonne, una moglie che ha persino attacchi di polmonite, gli incontri con i pazienti, con gli altri dottori e gli infermieri e scandito, soprattutto, da un’incrollabile volontà di capire che cosa sia successo, quali siano gli effetti di quella che sembra una vera e propria piaga; le descrizioni mediche di Hachiya sono minuziose, quasi candide nella loro violenza: Hiroshima è una città di ustionati, di gente senza denti, piena di ferite e di aperture ricucite con aghi di fortuna; è una città di corpi che vagano tra le macerie anche solo per recuperare le ossa dei loro cari; è una città di orfani, di genitori che hanno perso i figli (qual è la parola per designare un genitore che ha perduto un figlio?); nei corridoi dell’Ospedale della Comunicazione vagano esseri umani che perdono i capelli, che si riempiono a poco a poco di inspiegabili petecchie – segno di una serie di emorragie interne che porta quasi sempre a una morte atroce – che soffrono di anoressia, dissenteria, vomito, allucinazioni; non ci sono bagni, non ci sono vetri alle finestre, non c’è la corrente elettrica, e l’odore è talmente forte che i degenti smettono di sentirlo;  c’è una bellissima ragazza a cui il fuoco ha risparmiato il solo volto, e che giace immersa in un letto di pus; c’è una vecchia rimasta sola, che implora la morte; ci sono persone che hanno scritto nei volti il numero dei giorni che resta loro da vivere; ce ne sono altre che per alcuni giorni sono state perfettamente bene, e che hanno dovuto correre a ricoverarsi per delle improvvise deformazioni, per dei malesseri inspiegabili. È un’umanità che deambula senza meta tirandosi i capelli per vedere se rimangono attaccati al cranio, quella che descrive Hachiya. E soprattutto, per molti giorni, nessuno sa che cosa è veramente successo. Nessuno sa dell’atomica.
Hachiya, quando è in forze, lavora, cura, comincia a fare ipotesi e a eseguire delle autopsie sui cadaveri; conta i leucociti e le piastrine nel sangue dei morti; attacca delle coperte agli stipiti delle finestre sfondate per evitare che la pioggia gli bagni il letto; beve matcha e studia gli effetti delle radiazioni sui casi che ha a disposizione, per poi scrivere delle relazioni semplici e piane che sono una lezione di deontologia medica.
In città si dice che Hiroshima sarà inabitabile, per via delle radiazioni, per almeno 75 anni, ma nessuno ci vuole credere. C’è una fede, nelle azioni e nelle parole di Hachiya, una fede laica che mi lascia sbalordito: è la fede nel fatto che se qualcosa di così tremendo e impensabile è successo l’unica cosa da fare è rimboccarsi le maniche e, per quanto le forze lo permettano, guarire, lavorare, studiare, fare del bene. Questo piccolo uomo vissuto nel mezzo della catastrofe mi commuove, nonostante la sua fedeltà incrollabile all’imperatore e alla parte sbagliata. Tutto crolla: la nazione, l’imperatore, i muri, le strade, i fili della luce, i corpi delle persone a cui vuoi bene, il tuo corpo, ma tu vai avanti a indagare, ad amare le tue cose e a lavorare per riconquistarle. C’è una mole di verità e di vita che mi sconvolge in questo pugno di giornate raccontate: l’idea non è quella di riuscire a sopravvivere – per quello c’è il destino -: è di sopravvivere ricostruendo, da subito, con pignoleria e costanza, il ritmo naturale della vita, senza fermarsi di fronte all’estrema difficoltà del compito, e all’inspiegabilità e ineluttabilità di quello che è accaduto.
Che cos’è la pika? La pika è il lampo, la luce, il bagliore. È così che per molti giorni i sopravvissuti di Hiroshima chiamano l’esplosione. E’ solo quando riescono a entrare in Hiroshima persone venute da fuori, da posti a qualche decina di chilometri di distanza, che la pika diventa pikadon (don: scoppio rumoroso). Per Hachiya e i suoi concittadini, per molti giorni l’esplosione è stata semplicemente un bagliore accecante lungo un secondo, avvenuto in assoluta assenza di suono. Solo chi non era a Hiroshima ha potuto sentirne il fragore. Ecco, per chiudere, uno dei passi più straordinari del Diario:

«C’era solo un’altra possibile spiegazione per gli strani sintomi osservati: un’improvvisa variazione della pressione atmosferica. Avevo letto che si manifestano emorragie in individui saliti ad alta quota e in palombari che risalgono troppo rapidamente in superficie. Ma non avevo mai esaminato casi simili, e non potevo dunque dimostrare la mia tesi.
Tuttavia, continuavo a ritenere che  la pressione atmosferica avesse a che fare in qualche modo con i sintomi in questione. Quando ancora frequentavo l’università di Okayama, avevo assistito a esperimenti condotti in una camera a pressione. Uno stato di sordità improvvisa e temporanea era uno dei sintomi che si manifestavano ogniqualvolta la pressione nella camera veniva bruscamente alterata.
Di una cosa ero certo: tre giorni prima, quando era avvenuto il bombardamento, non avevo udito niente che si potesse definire un’esplosione, e nel tragitto verso l’ospedale avevo visto case crollare, ma non avevo avvertito alcun rumore. Era stato come se avessi camminato in uno spaventoso film muto. Altri, da me interrogati, mi confermarono di avere avuto la stessa esperienza.
Coloro che avevano assistito al bombardamento dalla periferia della città, lo descrivevano con l’espressione pikadon.
Per dare una spiegazione accettabile del fatto ce né io né gli altri avevamo udito alcune esplosione, bisognava dunque dedurre che vi era stata un’improvvisa variazione di pressione atmosferica, che ci aveva resi temporaneamente sordi. Si potevano ricondurre alla stessa causa anche le emorragie che cominciavano a manifestarsi?»

Dopo l’«evaporazione». La fine immaginata (Guido Morselli, Dissipatio H.G.)

«Relitti fonico-visivi mi tengono compagnia, e sono ciò che di più diretto mi rimanga di “loro”». È così che comincia Dissipatio H.G., l’ultimo romanzo di Guido Morselli, scritto pochi mesi prima del suo suicidio in una condizione di totale solitudine e disperazione e ambientato a Crisopoli – città immaginaria in cui chi vuole può riconoscere la Zurigo degli anni Settanta.
Una nota a margine prima di cominciare: la letteratura cosiddetta apocalittica non esiste, è una chimera. L’Apocalisse può essere immaginata ma non può essere descritta: tutto ciò che normalmente noi prendiamo come esempio di letteratura apocalittica mette in realtà in scena quello che gli anglosassoni chiamano aftermath (letteralmente «conseguenza») – espressione, praticamente intraducibile in italiano, che sta a indicare qualcosa come il giorno dopo una catastrofe. La differenza tra l’aftermath e l’Apocalisse risiede semplicemente nel fatto – puramente narrativo, se si vuole – che una catastrofe, per poter essere narrata, ha bisogno di almeno un superstite, un personaggio-narratore che viva e in qualche modo si muova all’interno della devastazione. Ma – e qui sta il problema – nel momento in cui anche un solo uomo è sopravvissuto, questo significa che l’Apocalisse non è avvenuta. Dunque tutta quella che noi siamo soliti definire come letteratura apocalittica o post-apocalittica, in realtà non lo è e non lo può essere per il semplice fatto che viene raccontata. Altra cosa è San Giovanni: la sua Apocalisse è una profezia, una rivelazione e una proiezione futura narrata in un presente dove il mondo e gli uomini sono ancora intatti, e questi ultimi sono ancora in grado di correggere la propria condotta. Tutti gli scritti apocalittici (da Giovanni a Daniele, da Enoc a Esdra a Baruc) si portano dietro rivelazioni su cose del passato, del presente e del futuro: queste rivelazioni sono normalmente note solo a dio e alle sfere celesti, e vengono rivelate al profeta affinché questi scriva un ammonimento e lo diffonda tra gli uomini. Sto banalizzando, ma mi preme specificare che il dettato apocalittico è frutto di una visione che porta a raccontare, per mezzo di allegorie, qualcosa che si riferisce agli uomini che leggeranno e al loro futuro. Il profeta racconta per mezzo di un’allegoria. Ai romanzi distopici, o post-apocalittici, manca naturalmente questa parte per così dire di rivelazione: manca il dettato divino. Questa mancanza, a livello testuale, fa saltare una delle caratteristiche fondamentali della scrittura di rivelazione: se San Giovanni racconta la sua visione, la sua profezia, facendo uso di allegorie (i candelabri, i cavalieri, il numero della Bestia e così via), lo scrittore contemporaneo che tenta di misurarsi con un testo che parla della fine mette in atto un’opposizione che è antitetica a quella appena descritta: il suo testo non parla per allegorie; esso è un’allegoria, un accorgimento che supplisce all’evidente impossibilità di presentare, oggi come oggi, un testo come dettato direttamente dall’alito di dio. Ciò si porta dietro una serie di conseguenze dirette sulla forma dell’opera: la narrazione è infatti in prima persona (chi racconta di solito è un sopravvissuto al disastro) e al tempo presente (non essendoci un futuro possibile non si può narrare al passato, ma solo raccontare le vicende giorno per giorno come in una cronaca); soprattutto, scompare dalle possibilità narrative la figura cardine della letteratura di tutti i tempi: l’eroe, il cui statuto è per definizione sconvolto dagli eventi: se sono solo ad affrontare la desolazione, la fine di tutto, non ho nessuno da salvare e non ho sostanzialmente azioni da compiere che non siano quella di tentare di sopravvivere, non posso più essere un eroe nel senso più stretto e classico del termine, e il mio «sacrificio» non si compirà: in un certo senso, esso si è già compiuto quando la «cosa», di qualunque cosa si sia trattato, è accaduta. Io sono nudo, solo, e parlo in prima persona. Queste sono le prime e fondamentali caratteristiche del testo distopico. L’eroe/narratore diventa una sorta di «osservatore dello sfacelo», una figura calata fisicamente nella distruzione e che la descrive con toni diaristici, intervallando la pochezza delle azioni a riflessioni su quanto è accaduto e perché, e, in molti casi, al racconto del momento del cambio di stato. Il racconto distopico è la forma tardomoderna della tragedia, e lo è al massimo grado, in quanto in essa viene sacrificato l’uomo come genere, come specie. Questa nuova e terribile forma di tragedia è resa se possibile ancora più tragica dalla cancellazione del tratto tragico fondamentale, che è appunto l’eroe: il personaggio/uomo, spolpato della sua dimensione sociale, economica, affettivo/sessuale, e privato soprattutto della possibilità di futuro, diventa semplicemente un registratore di fatti e di sensazioni limite, un individuo cavo il cui obiettivo è la sopravvivenza e – se possibile – la rigenerazione, la concordanza con le nuove coordinate che la catastrofe impone. In questo magma desolato, la degenerazione e la distruzione obbligano inoltre a guardare retrospettivamente l’umanità, giudicandone gli atti e le credenze – e pertanto il personaggio diventa la bandiera con cui l’autore mette sulla pagina la sua idea di mondo e il suo avvertimento all’umanità tutta.
La Dissipatio è la cronaca di un dopo: il protagonista – di cui non ci viene rivelato il nome – di questo grande romanzo degli anni Settanta  è un “fobantropo” che prima dell’inizio del libro fallisce il tentativo di suicidarsi e torna nel mondo degli odiati uomini, riemergendo suo malgrado da quel «Lago della Solitudine» dove aveva tentato di farla finita. C’è un problema: non c’è più nessuno. All’improvviso, senza che niente ci venga detto di quello che può essere successo, Crisopoli e il mondo sono svuotati della presenza umana. Rimangono, a memoria di “loro” (cioè noi), quei relitti fonico-visivi che tengono compagnia al narratore nell’attacco, e i resti architettonici della specie – letteralmente evaporata dal mondo. Le successive 150, densissime pagine, sono la cronaca asciutta e parasaggistica della vita del narratore, divisa tra ricordi del mondo passato e delle (poche) persone da lui conosciute, divagazioni tra il filosofico e lo psicanalitico in cui il narratore fa il punto sulla propria fobantropia, l’isterismo, l’ipocondria, l’incapacità sociale e in definitiva il distacco totale dal mondo degli uomini che l’ha sempre contraddistinto (efficace metafora dell’isolamento in cui per tutta la vita visse Morselli stesso), note morali, riferimenti biblici (ovviamente l’Apocalisse, ma anche l’Esodo e Giosafat), e tentativi spesso involontariamente comici di spiegare l’accaduto: il genere umano è evaporato a causa della Bomba S (Spopolamento), della Bomba R (Rarefazione), della Bomba X (Operazione Pulizia). Egli è solo, ma in realtà la sua condizione di solitudine non è cambiata rispetto a prima, anzi: in molti passi, il narratore si compiace di quell’inattualità che l’ha tenuto distante dalla specie e che in definitiva – nella sua civetteria – è la causa della sua sopravvivenza: è evidente, per lui, che non poteva essere incluso nella dissipatio, perché egli odiava gli uomini e li teneva lontani: socialmente, economicamente, psicologicamente e intellettualmente egli ha infatti sempre pensato a se stesso come a un non-uomo, e come tale è sopravvissuto alla catastrofe. La dipartita del genere umano in quanto tale è vissuta come uno «scorporamento» di specie: il mondo degli uomini era un mondo «tutto corpo» completamente avviluppato nel materialismo più gretto e volgare. Oggi l’uomo è finalmente diventato immateriale. Il protagonista si è salvato in quanto «inattuale» e asociale:

«A livelli sia pure superiori al mio, il pensiero è stato quasi sempre solitario, fine a se stesso, asociale. Secreto da monadi senza finestre, o che non si curavano di mettersi alla finestra. L’idolatria della comunicazione era un vizio recente. E la società, dopotutto, era semplicemente una cattiva abitudine».

La terra in cui il narratore di Morselli si muove, però, non è una waste land: man mano che il romanzo avanza, prende prepotentemente corpo un mondo «altro», un mondo vissuto come parallelo e alternativo a quello degli uomini: la natura – una natura rigogliosa e leopardiana – si riappropria velocemente degli spazi, riveste di sé e dei suoi suoni il mondo disabitato dagli uomini – vero fattore «inquinante», che ora è venuto meno:

«Me ne sto a guardare, dalla panchina di un viale, la vita che in questa strana eternità si prepara sotto i miei occhi. L’aria è lucida, di un’umidità compatta. Rivoli d’acqua piovana (…) confluiscono nel viale, e hanno steso sull’asfalto, giorno dopo giorno, uno strato leggero di terriccio. Poco più d’un velo, eppure qualche cosa verdeggia e cresce, e non la solita erbetta municipale; sono piantine selvatiche. Il Mercato dei Mercati si cambierà in campagna. Con i ranuncoli, la cicoria in fiore».

Queste sono, in pratica, le parole con cui si chiude la Dissipatio. Con la cicoria. Il mondo per come lo conosce il protagonista non è mai stato tanto vivo, tanto rigoglioso. L’uomo, in esso, non era che un «incidente» catapultatosi sulla terra per distruggerla e sfiancarla, e ora che non c’è più, con una gioia che è quasi panteista il narratore può guardare le altre manifestazioni della vita – finora relegate in provincia – prendere possesso del mondo. L’evoluzione umana, del resto, dice Morselli, non aveva altro fine che la fine.
Mi chiedo perché, spesso, l’aftermath in letteratura abbia una matrice conservatrice: penso ad esempio alle post-apocalissi di McCarthy, a quelle di Ballard e di Burgess. Sembra che il genere distopico, per poter essere innescato, abbia bisogno di un assunto di partenza anti-progressista. La tecnologia, il rapporto con il nuovo e con gli effetti che questo nuovo possono avere sulla vita dell’uomo e del mondo, sono quasi sempre il punto d’innesco di questi meravigliosi incubi futuribili, che colloco a metà strada tra la fantascienza e l’apologo, il racconto morale e l’allegoria del presente. Il catastrofismo – che è esploso in Italia intorno agli anni Sessanta/Settanta, in piena disillusione post-boom e una volta assorbito l’urto della presa di coscienza della distruttibilità del mondo (questo mio pezzo inizia non a caso con un discorso intorno a un libro su Hiroshima), e che si è sviluppato attraverso opere capitali come Il giorno del giudizio di Salvatore Satta, Il pianeta irritabile e Corporale di Paolo Volponi, La trilogia atomica di Carlo Cassola e per altre vie tramite il controverso La distruzione di Dante Virgili, ha ripreso oggi, in Italia e nel mondo, un vigore sorpendente: il già citato McCarthy, le distopie di Avoledo, certi incubi di Rushdie, di Vonnegut e di Saramago – solo per citare i casi più eclatanti.
Cosa fa paura del mondo di oggi? Cosa spinge molti scrittori a tentare la strada dell’allegoria post-apocalittica?
L’esplosione delle narrazioni distopiche è entro un certo margine figlia dell’incertezza: dopo il crollo del Muro, ma soprattutto dopo l’Undici settembre, cinema e letteratura hanno moltiplicato la produzione di opere di questo genere. Davanti alla catastrofe reale, davanti all’incertezza, ci si immagina un dopo – che giocoforza è sempre catastrofico o tende a questo. Il racconto del dopo porta all’estremo il senso di orrore, paura e instabilità e travalica i generi (l’horror, la fantascienza) per fornire un’allegoria delle cose che sia sufficientemente separata dalle cose da poterne essere uno specchio e una forma di giudizio. Aggiungo che non c’è quasi mai, in questa forma narrativa, una possibilità di redenzione e di salvezza – e questa è un’ulteriore forma di distacco dal testo primo di riferimento, quello di San Giovanni.
Torno brevemente all’anti-progressismo che spesso ingravida questo tipo di narrazioni. La paura del tecnologico, oggi come oggi, ne è il motivo scatenante: quello che per Morselli era un principio «inquinante» – l’uomo e il suo materialismo – è oggi la radice della catastrofe: ne La strada, Cormac McCarthy non nomina mai direttamente la causa della Fine, ma in un paio di passaggi lo scrittore fa riferimento en passant a qualcosa che ha a che fare con il nucleare, con le radiazioni; è una tecnologia di assoggettamento quella che spazza via la democrazia e gran parte dell’umanità ne La ragazza di Vajont di Tullio Avoledo; è il lavaggio del cervello fatto da una setta ipertecnologica che apre la strada a un nuovo medioevo quello che Houellebecq mette in scena ne La possibilità di un’isola. In qualche modo, l’uomo distrugge sempre l’uomo, nel racconto distopico. Mi viene da scrivere che l’uomo non si fida di sé e «si fa paura»: non conosce e teme le possibili conseguenze cui le sue capacità scientifiche, tecnologiche e per così dire dis-umane possono portare.

Dopo l’uomo – la fine è sempre un inizio (Roberto Marchesini, Post-human – verso nuovi modelli d’esistenza)

È un discorso vecchio. Ho di recente letto, per la verità senza apprezzarlo più di tanto, il famoso libello di Charles P. Snow Le due culture, fedele trascrizione di una conferenza tenuta dal fisico-narratore inglese nel 1959: in essa, per la prima volta nel Novecento, veniva posta la questione della netta separazione dei ruoli e dell’incomunicabilità totale tra gli ambiti scientifico e umanistico. Snow rileva sostanzialmente la barriera che separa scienziati e scrittori, ne mette a nudo la reciproca disistima e l’ignoranza dei concetti della controparte: come per uno scienziato è difficilissimo – dice Snow – leggere e capire Dickens, così per un letterato la seconda legge della termodinamica è e rimane un luogo oscuro. La cosa peggiore è che, in fondo, né allo scienziato interessa leggere Pickwick né al letterato avvicinarsi all’abc della fisica. Il libello di Snow è in realtà è un libro ingiudicabile, perché paga lo scotto di essere molto datato e ormai superato praticamente in tutto. Rimane inoltre un’analisi molto superficiale, anche se ebbe il merito indiscutibile di porre una questione capitale e di portare, in anni in cui qualche autore scopriva l’entropia e la inseriva in un discorso narrativo, la faccenda dei compartimenti stagni agli occhi del mondo. Oggi credo di poter dire che non è più così: l’elastico si è molto accorciato, la letteratura ha inglobato molti dei concetti della scienza (a volte rifiutandoli, come si diceva poco sopra a proposito della paura della tecnologia), e molti scienziati non si muovono più con goffaggine nei meandri dell’alfabeto.
Rimane molto viva un’altra contrapposizione, la dicotomia natura/cultura che è una coppia categoriale fondante in ambito occidentale, e che funziona come coppia oppositiva. Natura e cultura sono e continuano ad essere, nella percezione comune, due opposti. È da questo assunto evidente che prende le mosse Post-human, il libro di Roberto Marchesini – che è una sorta di enciclopedia epistemologica scritta per traghettare il lettore verso un’idea di umano che travalichi tutti quei comparti culturali in cui, per migliaia di anni, il pensiero occidentale si è mosso. Marchesini comincia sostenendo che la vecchia opposizione categoriale di cui sopra si fonda in realtà su un principio molto semplice: l’uomo come specie (e con «specie» si intende l’umano dal punto di vista sia antropologico che biologico) è un essere incompleto – o meglio: un essere che si percepisce come biologicamente insufficiente. Alla base dell’esplosione della «cultura», dice Marchesini – che è biologo ed epistemologo –, ci sarebbe la coscienza di una sorta di mancanza biologica, un’inferiorità rispetto alle altre specie che in qualche modo ha da essere colmata con la conoscenza e la separazione categoriale. Molto banalmente: l’uomo si rende conto di non saper né volare né stare sott’acqua e dunque inventa e costruisce aerei e sottomarini. In questo modo, con la tecnologia, da un lato l’uomo supplisce al proprio deficit biologico, dall’altro, bisogna invece rilevare che questo «paradigma dell’incompletezza» che porta alla cultura è anche un modo per separare l’umano dal resto, rendendolo qualcosa di diverso dalle altre specie in quanto «autocosciente» e in quanto in grado di operare una separazione netta con tutto ciò che è ritenuto naturale e in qualche modo primitivo. Inserirsi nella dicotomia natura/cultura è da sempre pensare l’uomo come un universo isolato, una sorta di monade e una particolare declinazione del creato. L’uomo è un essere singolare e autoreferente, posto assolutamente al centro del cosmo: la sua incompletezza e la sua imperfezione sono gli sproni all’edificazione della cultura – e dunque le cause del dominio umano sulla natura. In questa vecchia concezione c’è del platonismo, che solo apparentemente è rovesciato: l’idea di una «manchevolezza» biologica dell’uomo postula infatti un correlato di perfezione ideale, raggiungibile con lo sviluppo delle facoltà umane. L’uomo è una scimmia nuda priva di dotazioni naturali innate: la sua missione nel mondo è allora quella di crearsi tali dotazioni, in modo da poter raggiungere una completezza che è – a ben vedere – in netto contrasto con la teoria dell’evoluzionismo (per il quale l’uomo non è uno spazio cavo, un foglio bianco privo di qualità innate, ma una tappa dell’evoluzione nel senso biologico del termine). In questo senso, ogni tecnologia umana è una biotecnologia, perché perfeziona le possibilità performative del corpo umano, modifica l’ambiente dell’individuo e sposta leggermente più in là quella che Marchesini chiama la «pressione selettiva» sull’individuo stesso – rende cioè l’uomo un po’ più adatto all’ambiente che lo circonda: l’esempio più lampante è quello degli antibiotici, che suppliscono all’incapacità del corpo di creare antibiosi  e in qualche modo modificano la pressione selettiva: gli individui incapaci di produrre antibiosi non vengono cioè più selezionati per questa loro mancanza. Con gli antibiotici, l’uomo ha accettato quasi senza avvertirne l’urto, di ridisegnare la propria mappatura biologica, e ha accolto l’idea che delle sostanze possano modificare lo statuto del bìos con scopi curativi. In qualche modo, l’assunzione degli antibiotici da parte della specie è un modo di accogliere la mutazione.
Sostiene Marchesini che il nostro percepirci imperfetti è, oltre che platonico, anche una sorta di auto-incomprensione biologica: quella che noi chiamiamo imperfezione è in realtà «esorbitante presenza di prestazioni ibride e gran numero di organi e pattern comportamentali cooptati da altre funzioni a causa dei feedback culturali»; vale a dire che noi consideriamo imperfetto ciò che è in realtà un principio di apertura al mondo esterno, una (a volte involontaria) possibilità di accostamento e ibridazione costanti che sono la cifra bio-antropologica dell’uomo e, insieme, il nerbo del volume di Marchesini:

«L’umanità si è riempita (o è riempita) di strumenti, animali, simboli, macchine al punto che oggi spogliando l’uomo di tutto ciò sarebbe impossibile ritrovare in lui un pizzico di umanità. La protesi tecnologica determina cioè una sorta di esternalizzazione di funzione che permette di concentrare la pressione selettiva al di fuori del corpo per quanto concerne la funzione, all’interno del corpo per quanto concerne la capacità di ibridarsi con strumenti sempre più complessi e di perfezionare le funzioni ibride, quelle che emergono dal processo di meticciamento.
Il problema non è, dunque, quello di creare un sistema culturale che «perfezioni» biologicamente l’uomo; il sistema culturale va visto altresì come incarnato nella virtualità (intesa come potenzialità) biologica. Post-human è insomma un imponente saggio contro l’autoreferenza di specie: l’uomo è, in definitiva, la specie “anti-autarchica” per definizione, lo è nelle sue strutture biologiche, nei suoi tessuti e soprattutto – nonostante quello che professa – nei suoi apparati culturali. Sono infatti gli animali, semmai, ad avere relazioni di tipo intraspecifico, mentre la referenza del mammifero-uomo è sempre eteroclita: «Lo strumento e l’animale (…) forzano il sistema uomo a non chiudersi nascisisticamente all’interno della specie, ma a realizzare uno stato di non-equilibrio conoscitivo che rende l’uomo partecipe dell’universo». La cultura è un’espressione della natura, e l’eteroreferenza, anziché porsi come un principio che allontana l’uomo dalla natura e dal diverso, è in realtà il motore dell’avvicinamento con il non-umano.
C’è ne Il pianeta irritabile di Paolo Volponi un quinto personaggio – che si è soliti dimenticare – che segue i quattro protagonisti e li osserva a distanza: è l’imitatore del canto di tutti gli uccelli, vero e proprio personaggio-ponte tra l’uomo (che sta scomparendo) e gli animali; c’è, nella Dissipatio, la furia panteista del narratore, che gode della scomparsa dei suoi simili e del fatto che le forme viventi non umane stiano finalmente occupando gli spazi lasciati liberi dall’uomo, e la terra stia tornando a uno stato primigenio. Ci sono i selvaggi di Houllebecq, autentici uomini-bestia che girano in branchi, si accoppiano, si sbranano a vicenda e vivono cacciando con metodi animali. Ci sono i predoni-cannibali di McCarthy. Pare che, nell’immaginario post-apocalittico, l’uomo tornerà a farsi bestia, si spoglierà delle sembianze e dei comportamenti di specie per regredire verso una fase pre-umana, culturalmente prossima allo zero. In realtà, questo è tecnicamente un errore: la zoomimesi è infatti da sempre (oggi non meno che in passato) uno dei propulsori fondamentali del comportamento di specie, la vicinanza e l’ibridazione con il mondo degli uccelli e con quello degli altri mammiferi è una delle chiavi di volta per capire l’evoluzione culturale umana. Ancora oggi la posizione di un nido su un albero funziona come una sorta di bussola; la presenza di determinate specie in alcuni territori certifica la presenza dell’acqua; l’anatomia di certi animali ha suggerito e suggerisce la forma e l’utilizzo per armi, utensili, strutture, metafore per indicare parti del corpo (le «pinne del naso»). L’animale è un doppio culturale; la natura informa e indirizza la cultura. L’animale è una via di mediazione tecnologica, dalle città costruite sul modello degli alveari agli studi sul pollice opponibile ai marsupi dove infiliamo il portafogli quando andiamo in vacanza alla forma dei nostri aerei.
Dunque, qualunque sarà la fine, non torneremo ad essere animali, perché  siamo già imbevuti di animalità. Ho iniziato questo pezzo con il Diario di Hiroshima proprio per questo: volevo mostrare come davanti alla catastrofe – a un’apocalisse concreta, per così dire – la reazione del dottor Hachiya fosse stata la reazione di un uomo razionale, lucido, pieno di abnegazione e volontà. Non c’è abbrutimento né deriva culturale, nel libro del dottore: c’è un chiudersi sulle piccole cose, un cercare delle forme di sollievo, un eliminare l’inutile e il superfluo, e, soprattutto, c’è una volontà ferrea di ricostruzione e di ricominciamento. In questo senso, tutte le opere citate in seguito, dalla Dissipatio a La strada, si fondano su un fallimento e un’incomprensione: davanti all’ineluttabilità della fine, alla possibilità di una morte o di un cambio di specie, non è con la violenza o con la gioia che reagiremo, ma con una politica del fare e del sanare.
Dice Marchesini:

«Interpretare l’ibridazione tecnologica come allontanamento dal mondo animale, invece di considerarla un vero e proprio viaggio verso la teriosfera (…) non è solo un modo sbagliato di interpretare la cultura, ma è estremamente pericoloso perché ridà forza al progetto platonico, fondato sull’esclusione, il rifiuto della diversità, sull’utilizzo pregiudiziale e antinomico della realtà»

Secondo l’autore di Post-human quello che il futuro ci riserva è l’esatto contrario: l’ibridazione tecnologica è un principio di contiguità con la natura e le sue forme, è il veicolo attraverso cui l’uomo costruisce la propria natura e si avvicina ad essa. Perché? Perché l’uomo sta facendo con la tecnologia quello che ha fatto per secoli con il mondo animale: la usa per completarsi, per proiettare se stesso e i propri bisogni sul mondo esterno. Lo stretto legame vigente, tra l’altro, tra le forme animali e quelle tecnologiche sono più di un segnale di continuità. In un certo senso, l’uomo usa il computer come usava (e usa) i buoi che tirano l’aratro. Teriomorfismo e macchinomorfismo sono un principio di vicinanza, di aderenza tra l’uomo e il mondo, e non sono che le due facce della stessa medaglia culturale: attraverso entrambe, l’uomo cerca l’altro, e attraverso l’alterità definisce la propria natura di animale culturale.
Ma dove si arriverà?
Per Marchesini è chiaro che nel XXI secolo l’eugenetica lascerà il posto alla plutifenetica, all’abbandono dell’integrità biologica a favore di una contiguità con le altre specie, animali o tecnologiche. Il nuovo concetto di armonia sarà molto lontano da quello che ci ha tramandato la Grecia classica: alla staticità e alla semplificazione elleniche si sostituirà un’idea di armonia che è caos ordinato e ibridazione, perenne possibilità di cambiamento, dissipazione e mutazione. L’umanità scoprirà finalmente di essere asimmetrica e ne farà un valore, accogliendo dentro di sé l’alterità irredimibile del mondo.
Bisogna a questo punto operare una distinzione tra due correnti fondamentali, l’iperumanesimo e il post-umanesimo: il primo, dominante a tutt’oggi, è un movimento che vede nella tecnoscienza la proiezione dell’uomo, l’esaltazione tecnologica dell’Io; il secondo, assegna alla tecnologia il ruolo di emendatore dell’antropocentrismo in favore dell’eteroreferenzialità, partendo dal concetto di fallibilismo o di dominio di validità della performance di specie e negando la natura autarchica della cultura umana. Il saggio di Marchesini si chiude con una considerazione che in qualche modo ridelinea i concetti espressi nelle Due culture di Snow: l’autore dice che, in definitiva, gli ultimi decenni del XX secolo hanno visto proliferare il partito dei paladini del tecnologico e quello di chi vede nel progresso tecnologico una possibile deriva di specie, e pare che il massiccio ritorno di testi a carattere escatologico ne sia una prova sufficientemente convincente.

L’uomo che verrà (Aldo Schiavone, Storia e destino)

La chiusa – il Che fare? – è che c’è bisogno di pensarsi all’interno di un nuovo ordine. Questo ordine che va via via definendosi è un ordine tecnologico, governato dall’informatica (con l’intelligenza artificiale e i computer quantistici) e, appunto, dalla biologia, con il controllo e la possibilità di replicare i meccanismi evolutivi dei viventi. O meglio: è e dovrebbe essere un ordine fondato sulla consapevolezza della necessità di una commistione di campi e di esperienze, un’ apertura e un’ibridazione. La strada intrapresa dalla biologia è evidentemente quella del salto di specie, della compenetrazione tra l’umano e il non umano (non voglio entrare nel merito delle teorie iperumaniste o transumaniste o specificamente post-umaniste, perché non sono il mio campo di competenza – e in ogni caso viviamo in anni in cui queste modalità di pensiero stanno ponendo le proprie basi. Non è facile – per chi come me non è specialista – commentare in maniera intelligente queste prospettive, gioiose o distruttive che siano: quello che voglio fare è solo attestare, per così dire certificare la possibilità di questo salto e di questa mutazione, e provare a posizionarmi all’interno di essi).
Sostiene Aldo Schiavone che quando questo avverrà, quando saremo nel pieno di quel salto di specie in cui abbiamo già messo un piede, la dimensione «naturale» sarà andata perduta a favore di quella «culturale». Sappiamo da Marchesini che questo non è del tutto vero, perché in realtà, se le previsioni del biologo sono esatte, non avrà più senso operare questa distinzione, che sarà superata da una forma di sintesi post-umana. Noi dobbiamo attrezzarci, dobbiamo farci entrare sottopelle, per così dire, i diktat della scienza e del progresso, perché dobbiamo farci trovare pronti quando tutte queste fantasticherie da biologi non saranno più delle semplici prospettive (e per molti versi non lo sono più già adesso) ma delle occasioni concrete e delle tappe evolutive. Con la tecnica faremo concorrenza alla selezione naturale e abbatteremo definitivamente il confine tra naturale e artificiale.
Addirittura, nel suo piccolo libro, Schiavone arriva a dire:

«Credo che la generazione a cui appartengo e quella dei suoi figli saranno fra le ultime a fare i conti con l’esperienza della morte, almeno nei termini in cui la nostra specie l’ha incontrata finora (…) Fin dove spingere la propria vita (…) diventerà probabilmente una scelta soggettiva, in rapporto ai costi sociali della sua durata (…)»

Anche Marchesini dedica un capitolo a questo argomento, e lo intitola Diventare immortali, mettendo in scena l’antico sogno prometeico dell’eternità raggiunta. Ciò, naturalmente, non sarà forse mai del tutto possibile, ma è pur vero che, con l’evoluzione delle conoscenze in campo medico – di cui oggi abbiamo le basi teoriche – è verosimile che nel giro di qualche generazione arrivare a 120/150 anni non sarà più fantascientifico. Si sta già lavorando sui telomeri, frammenti periodici di DNA che incappucciano i cromosomi: ogni volta che la cellula si divide, i telomeri si accorciano; esiste una «lunghezza limite» oltre la quale l’attività replicativa del telomero – e della cellula che vi si nasconde – cessa. Ma se si stimola un particolare enzima, la telomerasi, si può prolungare indefinitamente la coltura cellulare, e prolungare la vita della cellula. La medicina sta già lavorando su ipotesi come questa, e non è poi tanto fantascientifico pensare che, come un secolo fa arrivare a 80 era quasi sempre un miraggio, domani sarà una sconfitta un’aspettativa di vita inferiore al secolo.
Da questa prospettiva non si torna indietro, e l’unica soluzione è l’adeguamento. Dobbiamo attrezzarci all’ibridazione e alla possibilità di un’immortalità medico-tecnologica. Abbiamo bisogno di un nuovo umanesimo, di un’etica della trasformazione e non della conservazione: l’orizzonte è più ampio di quello che pensiamo; dobbiamo renderci conto che stiamo per superare la specie, liberandoci dalla «prigionia» della naturalità evolutiva, e dobbiamo essere in grado di fronteggiare questa nuova prospettiva. Questa è la fine dell’uomo per come lo conosciamo, e ne è un nuovo inizio, che dobbiamo esercitarsi a conoscere.