Questa recensione è uscita su TuttoLibri della Stampa di oggi
Ragionando per approssimazione, esistono due tipologie di raccolte di racconti: quella concepita come un’opera unitaria, compatta, e che raccoglie testi scritti in un periodo limitato di tempo e che godono, per così dire, di un’unica ispirazione, ragionano su pochi temi chiave e hanno una lingua riconoscibile, che trova conferma di testo in testo; e quella, invece, che raduna testi scritti in momenti diversi e a volte felicemente contradditori della carriera di un autore, e che funziona pertanto come una sorta di antologia personale. La seconda tipologia ha, sulla prima, il vantaggio di dispiegare davanti agli occhi dei lettori tutta una carriera, di mostrare le evoluzioni dello stile e delle ossessioni di uno scrittore, rendendo chiari al di là di ogni ragionevole dubbio quali sono i suoi talenti e le tematiche a lui o a lei care. Insomma: il secondo tipo è una radiografia fatta in pubblico del gusto e delle pulsioni di un autore o un’autrice e, di conseguenza, un canale privilegiato per entrare in contatto con la sua poetica.

Ermellino bianco e altri racconti appartiene a questa seconda tipologia: nel 2017, in occasione dell’edizione originale, uscita in Francia per Gallimard, la scrittrice svizzera di lingua francese Noëlle Revaz ha raccolto le prose brevi che ha composto nel corso degli anni e ha dato vita a questo libro composito, ora ottimamente tradotto in italiano da Maurizia Balmelli per le edizioni Casagrande. Di Revaz conoscevamo già due romanzi, il primo durissimo, pubblicati da Keller molti anni fa: Cuore di bestia (2013) e Tanti cari saluti (2014). Ma credo che sia grazie a questo Ermellino bianco che l’ingresso nell’immaginario di questa autrice talentuosa possa dirsi completo.
In molte di queste prose c’è in scena un’umanità anonima, scarna, che vive ai margini e che dai margini si racconta presentandosi ai lettori nel modo più nudo possibile: «Siamo in due in questa casa: il nonno e io. Si potrebbe pensare che ci annoiamo» – è l’inizio di Spintarella, un racconto grottesco e atroce che sarebbe piaciuto a Ágota Kristóf, così come le sarebbero piaciuti Le bambole («Noi non aspettiamo niente di speciale») o I bambini («Viviamo nella casa blu. Non è casa nostra, ma ci trascorriamo l’infanzia»), con quella voce narrante alla prima plurale che sembra presa dalla Trilogia della città di K. e che crea un primo, vertiginoso straniamento: è l’avviso, per il lettore, di un disagio, di una stortura con i quali nel testo si dovranno fare i conti.
Sono tutti soli, i personaggi di Revaz, anche quando dicono «noi». Ma non va certo meglio a coloro la cui storia viene raccontata in terza persona, come accade per esempio nel pezzo che dà il titolo alla raccolta: Ermellino bianco è infatti una specie di favola (comincia perfino con «C’era una volta»), ma una favola nera, in cui il nero non sta tanto nella cupezza della vicenda, quanto nel modo in cui il destino della protagonista viene pacificamente accettato da chi le sta intorno.
Se c’è una cosa infatti che tutti i personaggi di queste prose hanno in comune è un senso di implacabile alienazione, o un gesto spietato che a volte subiscono a volte infliggono, ma sempre – e questa mi sembra una delle chiavi di ingresso in queste narrazioni – senza esserne consapevoli fino in fondo. C’è come uno scarto tra la realtà dei fatti narrati e la percezione che ne ha chi li racconta: da una parte ci sono l’isolamento e la violenza; dall’altra, il racconto viene spesso condotto con una naïveté, un candore che creano un contrasto potentissimo e disturbante; tra queste due tensioni c’è il lettore, che viene lasciato solo a fare i conti con brutalità e candore.
Anche l’amore non ha scampo in questi testi: è, nella migliore delle ipotesi, uno scambio di fluidi corporei, un’attività fisica da condurre senza mai instaurare una vera relazione, come nel bellissimo Laurent, o una specie di campo di forze, dove marito e moglie costruiscono il proprio ménage sulla base di ciò che la gente dice di loro (Le coperte). Insomma, bestialità e morbosità vengono qui raccontate – e qui sta un’altra possibile declinazione del principio di straniamento – come condizioni normali, perfettamente accettate e perfino borghesi: e questa concezione, mi pare, viene dritta dalla lezione di un’altra gigante della letteratura europea, Elfriede Jelinek, che Revaz ha senza dubbio ben presente anche per un altro, fondamentale aspetto della sua narrativa: la sperimentazione linguistica.
Libro leggibilissimo, Ermellino bianco è infatti un florilegio di stili: si va dal monologo alla favola, dal racconto all’indicativo presente a quello classico al passato remoto, dal «noi» all’«io» narrante, dai toni colloquiali alla paratassi esasperata, in una continua invenzione linguistica resa bene in italiano e che restituisce una lingua sghemba, frammentata, spaccata come le vite che racconta.
In che senso “marito e moglie costruiscono il proprio ménage sulla base di ciò che la gente dice di loro”?